La Palestina è una questione femminista
Negli ultimi anni sono nati gruppi di attiviste in Palestina che hanno una precisa ambizione, quella di un femminismo davvero intersezionale e decoloniale.
La questione palestinese è una questione femminista. È l’appello che un nuovo gruppo femminista palestinese, basato negli Stati Uniti, ha lanciato lo scorso mese, in occasione del Mese della Storia della Donna. La richiesta è chiara: è tempo che la «storia delle donne Palestinesi e degli alleati che hanno lavorato a mettere fine alle molteplici forme d’oppressione» venga riconosciuta, per arrivare a una «visione femminista davvero intersezionale e decoloniale».
Il Collettivo Femminista Palestinese non è il primo gruppo a fare propria questa battaglia, e non sarà l’ultimo. Una battaglia che parte dalla riconquista – o conquista – di un termine che per il Sud Globale ha spesso fatto rima con “imperialismo”: il femminismo.
«Femministe in tutto il mondo stanno incarnando e articolando un femminismo che vede l’oppressione come sistematica e strutturalmente radicata nel capitalismo, intrecciata con razza, sessualità, colonialismo e ambientalismo» scriveva il gruppo Tal’at, emerso l’anno scorso per riunire sotto un unico ombrello le varie anime del femminismo palestinese. «In breve, un femminismo che vada oltre le richieste individuali basate sul genere, ma che ci spinga a combattere per un mondo più equo per tutti». Una “tradizione femminista rivoluzionaria”, dunque, molto vicina alle istanze del femminismo nero.
Una rivoluzione più che mai necessaria: il femminismo di “matrice occidentale”, del Nord Globale, è stato negli anni (e ancora è) un alleato dell’orientalismo, incapace o non disposto a guardare alle donne del Sud Globale senza relegarle al ruolo di vittime passive di un sistema arretrato.
In questa narrazione, la donna araba, sottomessa, ha bisogno di essere salvata dal proprio uomo violento e padrone. Il femminismo occidentale ha così finito per fornire all’islamofobia un ricco vocabolario foderato di “diritti delle donne”, contribuendo a legittimare interventi militari e censurando più di una volta qualsiasi critica rivolta a Israele.
Con un colpo di spugna, si cancella il peso dell’occupazione sulle loro vite, il loro ruolo nella lotta contro di essa e nelle rivendicazioni nazionali palestinesi. Eppure, loro c’erano e ci sono sempre state – e hanno giocato un ruolo fondamentale durante la Prima Intifada, come mostrato dalla regista Julia Bacha nel documentario Naila and the Uprising. «È stato scioccante per me che questa storia non fosse mai stata raccontata – ha detto a Middle East Eyes – Ho imparato che la mancanza di visibilità delle donne nei movimenti di protesta è pervasiva. Le donne sono spesso la spina dorsale di questi movimenti, eppure vengono cancellate dalla storia o mai scritte in prima istanza.»
La scrittrice e studiosa Nada Elia cita inJustice is indivisible: Palestine as a feminist issue un episodio significativo. Nel 2006, durante la Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite sulle Donne in Nairobi, Kenya, la statunitense Betty Friedan si avvicina all’egiziana Nawal al-Saadawi con una richiesta. «Per favore, non nominare la Palestina nel tuo discorso» le chiede. «Questa è una conferenza sulle donne, non una conferenza politica». Da parte sua, Al-Saadawi si è ben guardata dall’avallare la richiesta, per poi successivamente commentare: «Come si può parlare della liberazione delle donne palestinesi senza parlare del loro diritto ad avere una terra dove vivere?»
In Israele e Palestina la distanza che divide le donne del Nord Globale da quelle del Sud si riflette ancora più articolata, e non divide solo le donne palestinesi da quelle israeliane. A emergere è un mosaico di femminismi, che include quelli dalla componente religiosa tanto islamica quanto ebraica, i gruppi LGBT+ e il femminismo delle donne mizrahi (ebree di origine “orientale”, prevalentemente da Paesi arabo-islamici). In definitiva, appare evidente la fragilità della “solidarietà di genere” in un contesto conflittuale come quello israelo-palestinese. «Questo problema viene anche dibattuto a riguardo delle donne dominanti e dominate (e.g. femminismo nero), e trova particolare eco in Israele e nei territori palestinesi» spiega Élisabeth Marteu inIsraeli and Palestinian Feminisms: Postcolonial Issues.
Il nocciolo della questione per i nuovi movimenti femministi palestinesi è che la giustizia è indivisibile, e come tale, la questione palestinese è una questione femminista. Commentando la richiesta avanzata dal Collettivo Femminista Palestinese, Elia sottolinea come essa voglia anche “rivendicare” il termine “femminismo”: «Non si può essere femministe mentre si sostiene la violenza basata sul genere, il colonialismo degli insediamenti, gli espropri alle persone indigene e l’apartheid. A discapito di quello che scrivono detrattori, il femminismo non è solo “compatibile” con la cultura palestinese, ha da lungo tempo caratterizzato gli sforzi delle donne palestinesi. Non ci può essere una libera patria senza libere donne, e la liberazione delle donne palestinesi non può concepibilmente avvenire senza la liberazione delle loro comunità e patria da imperialismo, razzismo, colonialismo degli insediamenti e altri mali».
Immagine in copertina di Montecruz Foto