Il femminismo è un profumo. Non ha leader, non ha madri- Corriere.it
«Non voglio parlare in termini di generazioni» è la prima cosa che mi dice Ritanna Armeni quando la incontro per parlare del suo nuovo romanzo, Per strada è la felicità , per Ponte alle Grazie. Ma nella nostra conversazione questa parola continua a tornare. Sembra impossibile non parlarne mentre metto a confronto la storia della protagonista Rosa — studentessa universitaria che dalla provincia si trasferisce a Roma e scopre le lotte dell’autunno caldo e il movimento delle donne — con la mia esperienza di giovane femminista. E con quella di Ritanna Armeni, che ha alle spalle decenni di lavoro e impegno politico. Nella storiografia femminista, la parola “generazioni” è stata sostituita con il concetto di “ondata”, come a indicare un eterno ritorno di lotte e rivendicazioni. Ma dietro queste parole si nasconde un’evidenza che è emersa più volte nel nostro dialogo: il cuore del femminismo è sempre lo stesso, quello che cambia, per quanto lentamente, è il contesto in cui si muove.
La cosa che più mi ha colpita leggendo il libro è la somiglianza e insieme la distanza tra la mia esperienza e quella di Rosa: entrambe partite dalla provincia, negli anni universitari trascorsi in una grande città ci siamo appassionate alla politica, anche se la realtà che Armeni racconta nel libro è ben diversa da quella che ho trovato io. Credo che i ragazzi della mia età sentano la stessa urgenza di cambiare le cose e sto pensando alle lotte femministe, antirazziste, per il clima. Ma a differenza del Sessantotto, oggi incontrarsi e organizzarsi è sempre più difficile. Internet sembra aver aumentato le distanze nello stesso istante in cui le ha accorciate. Non è solo una questione di spazio, manca la voglia di confrontarsi. Nel libro studenti e operai, maschi e femmine si scontrano in continuazione, il conflitto è sempre presente. Ma c’è anche un’orizzontalità che permette di risolverlo, anche quando alla fine ci si separa.
ARMENI: «LA LOTTA ECOLOGISTA, SENZA CAPIRE CHE BISOGNA CAMBIARE I MECCANISMI CHE REGOLANO IL MONDO, È GIARDINAGGIO. LA LOTTA FEMMINISTA CHE NON TENGA CONTO ANCHE DEI DIRITTI SOCIALI È POLITICAMENTE CORRETTA. ENTRA IN UNA PALUDE»
«Io non credo che il problema sia tanto l’interconnessione, e non credo sia nemmeno un problema generazionale, quanto una totale sottovalutazione della lotta sociale, che va avanti almeno dagli anni Ottanta», mi dice Armeni. «Citi l’antirazzismo, il femminismo, la lotta contro l’omofobia: temi che sono oggetto di passione, mentre la lotta sociale non lo è. Che uno stipendio non basti a vivere è una cosa sulla quale nessuno si appassiona. Non ho visto infiammarsi per lo sciopero di Amazon, non c’è coinvolgimento attorno alla vita dei rider. E qui secondo me sta la grande differenza con quegli anni. Oggi i diritti civili, i diritti della persona, vengono considerati quasi in contrasto o in contraddizione con i diritti sociali».
La copertina di «Per strada è la felicità», Ponte alle Grazie«Se ripenso alla mia epoca, il momento di massima liberazione sessuale ha coinciso con il massimo di lotte sociali. La lotta di classe e la fantasia andavano insieme. Oggi invece succede una cosa molto strana: i diritti della persona sono oggetto di dibattito, i diritti sociali sono ignorati, se non usati contro i primi. Dirò una cosa forse un po’ cattiva. La lotta antirazzista, senza un’idea di cambiamento dei rapporti economici e di potere, è buonismo. La lotta ecologista, senza capire che bisogna cambiare i meccanismi che regolano il mondo, è giardinaggio. La lotta femminista che non tenga conto anche dei diritti sociali è politicamente corretta. Entra in una palude».
Sono d’accordo con te. Io cerco di tenere insieme entrambe le cose e spesso fatico a far capire che le istanze femministe hanno una ricaduta materiale sulla vita delle persone. Ho notato, però, che le più giovani sono interessate ai temi dell’occupazione, del precariato e del lavoro di cura quando li si mette insieme a tematiche femministe, LGBTQ+, antirazziste. Quando cioè si smette di usare schemi e categorie che sono percepite come passate. Forse è questa la chiave per risvegliare l’interesse sui temi sociali. «Probabilmente hai ragione, è la chiave. E credo che le donne siano molto sensibili in questo. Penso all’esperienza delle operaie, che è presente anche nel mio libro. In loro c’era un elemento di realismo, di anti ideologismo. Quando ti dicevano che dovevano lasciare le riunioni per andare a fare la spesa ti riconducevano alla realtà».
Questo mi fa pensare a un altro tema altrettanto presente nel libro, quello della divisione dei ruoli di genere nell’impegno politico. Ci sono tante scene nel romanzo in cui gli uomini si impegnano nelle assemblee e prendono le decisioni, mentre le donne ciclostilano o preparano gli spaghetti. Anche queste mansioni sono importanti, eppure sono costantemente sminuite. È una contraddizione che esiste anche a livello macro: i compiti che le donne svolgono sono fondamentali ma non vengono né retribuiti né riconosciuti socialmente. E quando a mettercisi è un uomo, ecco che dobbiamo essergli grate anche se ha fatto uno sforzo minimo, mentre l’impegno delle donne viene costantemente sottostimato oppure giudicato molto più severamente. «L’uomo è abituato al potere e al dominio. Con l’età faccio sempre più fatica a prendermela con i singoli uomini perché ho capito che è una cultura che è quasi diventata natura. Anche negli uomini migliori il rapporto con il potere si manifesta inarrestabile, devono occupare gli spazi, prendere la parola».
«Negli anni questo atteggiamento maschile mi ha dato molto fastidio, l’ho combattuto con rabbia, ci ho fatto il sangue amaro, soprattutto nei primi momenti della mia carriera giornalistica quando vedevo che a pari merito, anzi, con un merito maggiore da parte mia, gli uomini mi passavano davanti. Adesso non mi arrabbio più. Quando vedo una situazione di questo tipo - perché si ripropongono anche alla mia veneranda età - mi ricordo di quel principio femminista che è il partire da sé. A quel punto mi dico, sii tu a mettere le distanze, a decidere la cornice del discorso, a dire che qualcosa non va. Temo però che sia una cosa che si conquista con l’età. Quel rapporto con il potere così forte, così inciso nell’uomo, non è una cosa che si toglie dall’oggi al domani».
Ritanna Armeni è nata a Brindisi nel 1947. È giornalista e scrittrice. Qui sopra in una immagine scattata nell’autunno del 1968 (foto Massimo Leone)
Questo stesso potere si manifesta anche nel rapporto di coppia tra Rosa e Camillo, un uomo sposato e con figli. Sono rimasta colpita da questa storia, credo sia ancora molto comune. «È una storia che tutte le donne hanno vissuto, quella del rapporto di subalternità con l’uomo che per vari motivi - perché più grande, perché più colto, perché più ricco, perché più potente - riesce a esercitare il suo fascino a quel modo. Credi davvero sia ancora così comune?».
GUERRA: «INTORNO A ME VEDO ANCORA TANTI UOMINI CHE APPROFITTANO DEL LORO POTERE PER DETTARE TUTTI I TERMINI DELLA RELAZIONE»
L’ultimo libro di Jennifer Guerra, «Il capitale amoroso», BompianiSì, forse non riguarda per forza un uomo sposato e una giovane amante, ma intorno a me vedo ancora tanti uomini che approfittano del loro potere per dettare tutti i termini della relazione in modo che sia ad esclusivo vantaggio loro, riuscendo a persuadere le donne del contrario. Fino a un certo punto Rosa si convince che quella tra lei e Camillo sia la situazione ideale, antiborghese, rivoluzionaria, quando in realtà lui la tratta come se fosse un bene di cui può disporre quando vuole lui, quando decide lui. «E infatti quello che propone Camillo è un rapporto molto borghese: la moglie, il marito e l’amante. Nel tuo libro, Il capitale amoroso , ritieni l’amore un elemento propulsivo e costruttivo di grande importanza e ti distacchi sia da un’idea romantica che da un’idea scettica. Il problema è che siamo vissuti tutti in questa dicotomia, Rosa compresa. L’amore è sempre visto in antitesi con la realtà: se tu ami, il resto non conta. Per giustificare questo amore, Rosa usa la rivoluzione».
Nel suo percorso di presa di coscienza, è fondamentale l’incontro con un’altra Rosa, la Luxemburg, su cui la protagonista del libro fa una tesi di laurea studiando le sue lettere a Leo Jogiches. «Leggendole ho avuto anche io gli stessi sentimenti di Rosa. Mi chiedevo come una donna che litigava con Lenin, contestava Marx, faceva paura alla socialdemocrazia tedesca potesse disperarsi tanto per un uomo che non la amava abbastanza. Ma che poi, nonostante questo, alla fine si sposa con un tedesco che non ama per ottenere la cittadinanza e continuare a lottare per la causa in Germania. In lei c’è sia la tensione verso l’amore che verso la politica, e così anche nella “mia” Rosa: a tenerli insieme c’è la rivoluzione, almeno finché non scopre che si tratta di una rivoluzione finta perché non prende in considerazione le donne. L’ideale romantico smette di ghermirla e viene fuori un’idea forse più solida, più trasparente dell’amore».
Possiamo dire che nella Luxemburg, Rosa vede una madre simbolica? Il rapporto con le donne che ci hanno preceduto per noi giovani è più difficile. Personalmente ho molta difficoltà a dialogare con le femministe più vecchie. Da un lato, alle ragazze della mia età manca una coscienza storica, dall’altro lato avverto che è mancato un passaggio di testimone. Siamo restate senza riferimenti. «Se ci pensi, il femminismo degli anni Settanta non ha capi, non ha leader, non ha madri. Se c’è una cosa che unifica tutti i femminismi è proprio questa assenza. È inutile cercare figure di riferimento precise: non ce ne sono di assolute, ma quelle che di volta in volta ognuna si dà. Forse più che di un passaggio di testimone si può parlare di un profumo che si trasmette».
Jennifer Guerra è nata a Brescia nel 1995. È giornalista e scrittrice (foto A. Passon)
Di certo le conquiste sono rimaste. Penso all’aborto, un argomento centrale nel libro. Oggi la mia impressione è che se ne parli meno, sia perché le donne non hanno più il terrore della gravidanza, sia perché lo si dà un po’ per scontato. «L’aborto oggi è un fenomeno residuale nel nostro Paese, mentre un tempo era molto diffuso. Io non conoscevo donna che non avesse abortito almeno una o due volte. La paura di cui tu parli è sempre stata ignorata: la letteratura ha esplorato soprattutto la colpa, ma non la paura. Secondo me il fatto che ce ne siamo liberate è una delle più grandi conquiste delle donne, un po’ grazie agli anticoncezionali, a una maggiore libertà sessuale, a un controllo maggiore del proprio corpo. Le donne non sono più subalterne al piacere maschile. Carla Lonzi sosteneva che la necessità dell’aborto arrivasse da quella subalternità. Oggi si abortisce di meno perché le donne sono più libere e forse è proprio questa libertà la più grande vittoria del genere femminile. Quel profumo di cui parlavo prima».
12 maggio 2021 (modifica il 12 maggio 2021 | 10:59)
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