Libere di essere. Il plusvalore della diversità culturale (di Y. Samnick)
(di Yvette Samnick, mediatrice culturale e scrittrice, centro antiviolenza Roberta Lanzino, Cosenza)
Si può dare un’interpretazione sbagliata se ci si sofferma solo al primo sguardo. A volte ci basiamo solo su quello per cercare argomenti per legittimare le nostre battaglie, battaglie che nemmeno ci dovrebbero più essere nel 2021. E finisce che sbagliamo il “nemico”.
Ho scritto un libro che racconta la violenza a cui ho assistito in famiglia e quella che ho subìto. Sono madre di un bimbo. Lavoro per mantenere me e mio figlio.
Perché lo scrivo? Non certo per farmi pubblicità, non certo per mostrare quanto sono “brava”. La mia è la condizione di decine, centinaia, migliaia di donne.
Solo che la mia pelle è nera, i miei capelli sono afro, il mio bacino sottile, il mio corpo muscoloso. Sono nata in Camerun, lì mi sono laureata. Vivo in Italia, anche qui mi sono laureata. Lavoro come mediatrice culturale.
Eppure al primo sguardo io sono solo una “immigrata”.
Per questo le mie battaglie hanno molto a che fare con la discriminazione, con i pregiudizi e gli stereotipi che stanno alla base della discriminazione.
Pregiudizi e stereotipi che, nel mio caso, si sommano e si intersecano. Essere donna, nera, immigrata, madre single, lavoratrice che fa quadrare i conti con fatica a fine mese: ognuna di queste definizioni nasconde un muro che separa e ingabbia, che limita le scelte e le opportunità, che crea disuguaglianza.
Un muro che ho sempre cercato di abbattere da sola. Una lotta in cui mi sono sempre sentita invisibile.
Invece, ci sono donne oggi capaci di guardare oltre le apparenze, di non giudicare in base al primo sguardo, di ascoltare e ragionare, dandosi il tempo necessario, su quali strategie e azioni possiamo costruire per affrontare le nostre battaglie insieme.
Oggi credo che un “noi” – “bianche” e “nere”, o variamente “colorate”, italiane e migranti – sia possibile: fino a poco tempo fa era un concetto astratto, un desiderio, forse, ma non la consideravo una possibilità reale.
La comunicazione è essenziale. Se non esponi chiaramente i tuoi bisogni e se, quando lo fai, ti fai prendere dall’emotività, è difficile essere ascoltate. Lo dico perché l’ho esperimentato. Mi sono resa conto che l’invisibilità di cui mi lamentavo, come donna “immigrata”, “nera”, era proprio questo. Mi sono sentita esclusa a priori, accusavo le altre donne – “bianche”, italiane – di escluderci, ma ero anche io a non fare un passo verso di loro per sollecitare l’unità dei movimenti di donne sulle tematiche che ci riguardano, per costruire insieme le lotte.
Dico “insieme” perché quando ci si apre al dialogo, ci rendiamo conto di quanto l’altra può completarci e di quanto abbiamo bisogno di lei. Nel paese da cui vengo c’è un proverbio che dice “Un solo braccio non può arrampicarsi sui rami di un albero”. È profondamente vero.
© Chiara Pasqualini, Alessandro Fucilla/MIP
La mia partecipazione al Festival Libere di essere organizzato da D.i.Re è stato un segno forte di cambiamento e inclusione. Ho fatto delle proposte e sono state accolte, sia per l’incontro Corpo. Salute. Libertà che aveva un focus proprio sulla diversità, che per il reading La libertà al centro. Lo spazio per esprimermi non mi è solo stato offerto: lo abbiamo negoziato e costruito insieme.
Posso testimoniare oggi che c’è un reale bisogno di comunicazione e condivisione delle diverse esperienze culturali sulle tematiche che riguardano le donne. Si percepisce un desiderio di apprendimento, di comprensione. I meccanismi di invisibilità a volte li attiviamo noi. E dunque siamo sempre noi che possiamo cambiare le cose.
La porta secondo me è sempre stata aperta, e con questo festival si è ingrandita per permettere a tutte le donne di entrare. All’interno c’è abbastanza posto per tutte le donne. La sorellanza si può costruire solo se ci diamo la possibilità di conoscerci realmente, oltre gli stereotipi, le discriminazioni e tenendo conto delle sensibilità di tutte: perché ci sarà chi subisce una doppia discriminazione, chi una tripla… però insieme si riconosce che i problemi di una donna sono i problemi di tutte le donne.
La visibilità si può costruire e si può condividere.
Grazie al progetto Leaving violence. Living safe realizzato da D.i.Re in partnership con Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i centri antiviolenza si fanno sempre più inclusivi dando la possibilità a donne provenienti da altre culture di valorizzare le proprie esperienze così che ogni donna, indipendentemente da dove è nata e dalla lingua che parla, possa ritrovarsi in questo spazio e condividere la lotta politica per i diritti delle donne.
Abbiamo chiesto l’inclusione, però questa non è a senso unico.
Dobbiamo anche noi, noi “immigrate”, imparare ad aprire le nostre porte alle altre donne senza pregiudizi, stereotipi e discriminazioni. Senza fermarci al primo sguardo.
Sebbene ogni donna sia diversa credo che abbiamo più punti in comune di quelli che ci dividono ed è proprio da quelli che dobbiamo partire. Nei centri antiviolenza della rete D.i.Re succede proprio questo. Ogni donna è benvenuta, per ogni donna c’è ascolto. A ogni donna, le operatrici dicono lo stesso “Io ti credo”.