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Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

l concetto di “inesistenza” della donna è stata a mio avviso l’intuizione più originale e rivoluzionaria del femminismo anno Settanta. L’idea di “differenza”, più legata al contesto di emancipazione e al dilemma “uguaglianza-differenza” ha spostato l’analisi dei sessi nel contesto storico interno alla razionalità occidentale, cancellando l’acquisizione più importante: la cancellazione della donna come persona, Io intellegibile. Io incarnato.

Prendiamo per esempio il concetto di misoginia su cui tanto oggi si discute. È un concetto che nasce all’interno della contrapposizione che presuppone due generi: maschile e femminile, di cui utilizza tutto l’appartato fantastico ed emotivo, prima fra tutte la complementarietà delle coppie. È per questo che Otto Weininger, l’autore di Sesso e carattere, è apparso unanimamente come un denigratore delle donne, che considerava escluse dall’“esistenza intelligibile” – “superiore, trascendente, metafisica” – appartenente solo all’uomo, mentre Giovanni Paolo II per la sua lettera pastorale, Mulieris dignitatem, è stato salutato da più parti come il paladino di una riconosciuta “trascendenza” del sesso femminile. 

Ma proviamo a scostarci dalla rappresentazione dualistica e a gettare un occhio sull’essere concretamente diverso di un sesso e dell’altro, che una coscienza recente ha intuito, senza poter ancora descriverlo appieno. 

La discesa agli inferi e l’“assunzione” in cielo, la riduzione della donna a corpo, sessualità, e la sua trasfigurazione in sostanza angelica, simbolo di un’umanità “redenta” – sottratta al peso ingombrante della materia, della necessità e del tempo – è evidente che sono figure uguali e contrarie di uno stesso pregiudizio: quello che rende così lenta e contrastata l’acquisizione della diversità dei sessi e della singolarità di ogni essere umano, fuori dall’idea di un doppio e di una reciproca indispensabilità. 

Paradossalmente, il denigratore e l’adoratore del “femminile” parlano la stessa lingua, costruiscono la stessa parabola che, dopo aver spaccato il mondo in due e aver guardato con orrore l’abisso che si è incuneato tra cielo e terra, tra le parti “disgiunte” del divino e dell’umano, si affretta a ricomporlo nell’armonia di un intero, rigenerazione dell’uomo nell’idea perfetta di un dio, dentro il quale la donna scompare, o perché è stata “vinta” (Weininger), o perché, avendo fatto totale “dono di sé”, è diventata con l’altro un “solo spirito” (Giovanni Paolo II).

Rigettata, come luogo dove si addensano le ombre della morte, dell’ignoto, della passività, della follia, o innalzata come “recipiente” di ogni più alto valore, è comunque dall’uomo, dai suoi desideri e dalle sua paure che viene l’appiattimento di un essere reale e della sua autonomia, dentro le immagini di un “evento” che si presenta sempre uguale, nella tradizione filosofica come nell’etica, nella religione come nel senso comune. Il doppio movimento della “caduta” e della “redenzione”, che attraversa tutta la storia dell’uomo e che vede la donna come “mezzo” di una “grande opera” altrui, consente di tracciare parentele insospettate e di ripensare la misoginia sotto il profilo indifferenziato di una maschera che può essere ossequiosa come denigratoria.

Il “rifiuto della femminilità” e, contemporaneamente, il fascino dell’“eterno femminino” hanno fatto sì che si guardasse al dualismo come a qualcosa di “enigmatico”. Ma se si accostano due testi tra loro apparentemente distanti, come Sesso e carattere di Weininger e la lettera pastorale Mulieris dignitatem, non è difficile accorgersi che sull’esistenza femminile l’uomo celebra una drammaturgia antica che lo vede diviso in se stesso: tra corpo e spirito, desiderio e amore, necessità e libertà, inconscio e coscienza, tempo e eternità. 

Quando l’uomo divenne sessuale creò la donna… La donna è l’oggettivazione della sessualità maschile, la sessualità incarnata, la sua colpa divenuta carne...

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