Sabbadini (Istat): “Sulle spalle delle donne il peso del Covid, ma senza di loro non ci sarà una ripresa”
Genova – Ha rivoluzionato le statistiche ufficiali sociali e di genere. Ha recuperato alle misurazioni la grande platea degli invisibili, non considerati perché non rientranti nella fredda elaborazione dei dati economici. In un’Italia con il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa (48,5% contro il 62) lancia il segnale della riscossa: «Non siamo una categoria da proteggere, ma la risorsa attraverso la quale costruire una rinascita sociale ed economica del Paese. Senza di noi non ci sarà».
Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat, è la Chair del W20 (Women20), il gruppo che ha l’obiettivo di elaborare proposte sull’eguaglianza di genere ai leader mondiali del G20, espressione della società civile. Di sé racconta: «Ho sempre avuto una grande passione sociale e nel contempo statistica. Ho avuto una grande insegnante, Emma Castelnuovo, che mi ha insegnato la matematica come intuizione, scoperta, creatività, logica. La statistica applicata al sociale è stata la mia sintesi».
Qual era il contesto in cui si è mossa all’inizio della sua carriera?
«Gli istituti nazionali di statistica, in Italia ma anche in tutto il mondo, nascono economico-centrici, con scarsissima attenzione al sociale. Avevano ed elaboravano tutti i dati sul Pil e gli indicatori economici, ma non ne avevano sulle condizioni delle donne, degli uomini, dei bambini, dei disabili, degli anziani, dei giovani, degli immigrati, degli homeless e della popolazione lgbt. Persone che non erano al centro delle misurazioni, ma avevano un’importanza fondamentale nella misurazione delle diseguaglianze per disegnare politiche di equità».Che però sono sempre esistite.
«Prima lo sapevamo, ma non c’erano numeri. Una considerazione: alla fine degli anni Ottanta si intuiva che c’era un quadro di asimmetria nel carico di lavoro familiare nella coppia, noi l’abbiamo misurato».
Situazioni uscite dall’ombra.
«Dal punto di vista statistico non sono più invisibili. Provo a fare un esempio, la violenza sulle donne. Un fenomeno che un tempo veniva valutato solo con il numero di denunce presentate. Ma così si vedevano solo le vittime che riuscivano a denunciare. Oppure quelle che venivano uccise, perché era ahimè evidente».
Così avete cambiato approccio.
«Abbiamo scoperto che le denunce rappresentavano solo il 10 per cento dei casi. Spesso le violenze venivano perpetrate dai partner, ma chi le subiva faceva fatica a identificarle come tali, ad ammettere che fossero violenti. Allora abbiamo capito che dovevamo chiedere di raccontarci le azioni, che le donne avevano subito senza connotarle come violenze».
L’emergenza contagio ha colpito duramente le donne.
«Le statistiche l’hanno espresso molto chiaramente. Prima considerazione: le donne sono state un baluardo durante la lotta al Covid. Non solo nella sanità, ma anche nell’assistenza. Ma siccome la pandemia è stata una crisi della cura, perché i governi non hanno saputo affrontare tempestivamente il pericolo, questo fallimento si è scaricato sulle donne».
Con modalità differenti…
«Certo. Quelle che erano inserite nel settore sanitario sono state sovraccaricate, senza un aiuto dei genitori che, soggetti da tutelare al massimo, non potevano aiutarle, con i figli a casa e turni massacranti da affrontare. Poi va rilevato come le donne fossero le più inserite nei settori che sono stati esposti alla pandemia».
Hanno subito il calo più consistente di lavoro.
«Sì, hanno perso più occupazione, 450 mila in meno. Perché sono stati colpiti soprattutto i servizi. Ricordiamo rapidamente le crisi pre Covid: nel 2008-2009 quella dell’industria, nel 2013 quella anche delle costruzioni. Il Covid ha colpito i lavori domestici, gli alberghi, la ristorazione, il turismo, il commercio. Tutti settori in cui la presenza femminile è consistente, spesso con lavori irregolari e tempo determinato».
Anche lo smart working non ha rappresentato sempre un sollievo.
«Lo smart working può essere un’opportunità, ma se gestito in modo adeguato. Non esclusivo in casa e non esclusivo per le donne, magari alle prese quotidiane con i figli con una Dad che non funziona».
Le ha affrontato anche le tematiche Lgbt.
«Popolazioni particolarmente invisibili, c’è ancora un problema di autodichiarazione. Però nel 2011 è stata svolta una prima indagine molto importante sul livello di omofobia nella nazione. È emersa una cosa interessante: già 10 anni fa l’atteggiamento della popolazione era più tollerante di quanto si reputasse. Solo per il 10 per cento l’omosessualità era una malattia, solo per un altro 10 per cento immorale».
Le cose sono cambiate in 10 anni?
«La rilevazione verrà ripetuta. Quello che era emerso era una differenziazione tra la popolazione più anziana e quella più giovane. Per quest’ultima si coglie che nella maggioranza di casi non ci sono pregiudizi nei confronti dell’amore tra due persone dello stesso sesso. Una situazione un tempo circondata da pregiudizi molto forti, con le nuove generazioni diventa più accettata. È vero: esiste una parte estrema di bullismo, ma non è espressione di condanna sociale diffusa nella società».
Quindi lei ha sviluppato le statistiche ufficiali sui diritti.
«È stato l’obiettivo della mia vita lavorativa, misurare rigorosamente i diritti significa far conoscere i problemi degli invisibili. Mettere in condizione la politica di operare. Ne sono fiera».