Saman Abbas e le altre: «In Emilia-Romagna un centinaio di casi l’anno»
Saman Abbas
Tutt’altro che un caso isolato. La maggior parte per fortuna non così gravi come quello di Saman con la vita in pericolo, ma sono molte decine, addirittura fino a un centinaio all’anno, le situazioni di sottomissione, difficoltà psicologica o violenza fisica segnalate al tribunale per i minorenni di via del Pratello. Per non parlare dei casi che non emergono, perché il matrimonio forzato rappresenta un fenomeno difficile da quantificare: non esiste un osservatorio nazionale, né un database regionale.
Servizi sociali e scuole: radar sul territorio
L’Emilia-Romagna è un territorio fertile per le sue condizioni socioeconomiche e culturali, per l’accoglienza e l’integrazione. Capita così che le famiglie straniere si trasferiscano e si stabiliscano qui trovando il modo di mantenersi meglio che altrove. Allo stesso tempo i figli, calati in un contesto di potenziale integrazione, sentono di più l’esigenza di una occidentalizzazione, di smarcarsi da certe tradizioni subite come nel caso di Saman o di Masuma. Anche se la vita familiare, i divieti, le minacce e le vie di fatto utilizzate spesso complicano o rendono impossibile il percorso di integrazione. Dall’altro lato, quando i casi sono in numero maggiore è anche segnale di un sistema attento, con una serie di meccanismi che funzionano magari meglio rispetto ad altre parti del Paese. I servizi sociali, spesso allertati da vicini di casa, le scuole, il coraggio delle stesse ragazze, il ruolo delle forze dell’ordine. In questi casi «le minori con l’aiuto dei servizi o della scuola sono state individuate e collocate in comunità, e sostenute nel loro processo di autonomia. Non sempre funziona, c’è il richiamo della famiglia e la paura di non farcela da sole», spiega Silvia Marzocchi, procuratore della Repubblica al tribunale per i minorenni di Bologna.
L’esperto: «Un centinaio di casi l’anno»
Questo aspetto è confermato da Alessandra Davide, responsabile del centro antiviolenza dell’associazione imolese Trama di Terre: «Purtroppo la storia di Saman dimostra che, anche quando i servizi sociali si attivano subito mettendo in sicurezza la ragazza, lei stessa può decidere di tornare indietro, perché sperimenta un vuoto emotivo oppure viene attirata a casa con un inganno». Negli ultimi dieci anni l’associazione, che opera in Emilia-Romagna e non solo, è intervenuta su un centinaio di situazioni: «Sono ragazze tra i 16 e i 25 anni, arrivate qui con la famiglia, nate o cresciute in Italia. I Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, India, Marocco, Tunisia, Algeria, Turchia, Albania, Kosovo, Montenegro».
I trattati internazionali
Dopo la Convenzione di Istanbul, ratificata dallo Stato italiano nel 2013, che permette di intervenire a livello giudiziario e sociale, «in Italia abbiamo dovuto attendere il Codice rosso nel 2019 per vedere questa forma di violenza identificata come reato — ricorda l’operatrice —: il reato viene reso transnazionale, e questo è molto importante, ma la legge non è sufficiente. Le ragazze non vogliono criminalizzare la famiglia, quindi spesso non denunciano. Poi serve una formazione su questo tema dei matrimoni forzati, perché vengono ancora approcciati con un relativismo culturale che fa male a queste giovani e al processo di emancipazione che stanno compiendo». Cristiana Natali, docente di Antropologia culturale dell’Alma Mater, evidenzia come ci sia «un equivoco tra matrimonio combinato e forzato. Il primo è normale in molti contesti, come in Sud-Asia o nel Nord-Africa: i genitori, che conoscono bene i figli, suggeriscono una persona adatta per loro senza obbligarli a sposarla, mentre Il cosiddetto love marriage, che qui interpretiamo come libera scelta, è malvisto perché dettato da pulsioni momentanee. È una concezione diversa dalla nostra, ma completamente distinta dal matrimonio forzato, che è stato condannato dall’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia, ndr) in quanto pratica deplorevole».
Il nodo dell’integrazione
Il discorso si sposta dunque dall’antropologia ai diritti umani: «Non è un conflitto generazionale o culturale, ma una violazione dei diritti delle donne», insiste Alessandra Davide, aggiungendo che «il problema reale è la tradizione: è importante capire la provenienza delle ragazze, rispetto al Paese di origine e al contesto socioculturale». E riuscire a staccarsene non è facile: «Un gesto di allontanamento come quello di Saman è una profonda cesura rispetto alla tradizione: sono ragazze divise tra due mondi, non riconosciute né dal Paese di provenienza, né da quello di accoglienza». Su questo concetto si sofferma anche Elsa Antonioni, vicepresidente della «Casa delle Donne per non subire violenza» di Bologna: «La comunità di origine è l’unica che si propone di dare un’identità a queste ragazze: bisogna costruire prospettive identitarie diverse per gli adolescenti di seconda generazione, che altrimenti si trovano spaesati al di fuori del contesto di provenienza, spesso molto avvolgente». C’è infine il nodo della cittadinanza italiana, che «sarebbe un grande aiuto per loro quando vengono portate con la forza o con l’inganno nel Paese di origine per essere sposate».
La newsletter del Corriere di Bologna
Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di Bologna e dell’Emilia-Romagna iscriviti gratis alla newsletter del Corriere di Bologna. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui.
6 giugno 2021 (modifica il 6 giugno 2021 | 08:32)
© RIPRODUZIONE RISERVATA