L’Italia si è ritirata dall’Afghanistan Ammainato il tricolore a Herat, finisce dopo 20 anni la missione più difficile- Corriere.it
DAL NOSTRO INVIATO HERAT - L’ammaina bandiera è una cerimonia mesta, improntata dal basso profilo, nell’hangar semivuoto di un aeroporto semideserto. Fuori l’aria già secca del pomeriggio e la luce accecante dell’incipiente estate afghana. Sulla pista troneggia un gigantesco Ilyushin da trasporto che sta caricando mezzi militari con le bandiere italiane. Ogni tanto arrivano anche gli Antonov, almeno cinque al giorno. Ai bordi della striscia d’asfalto attendono grossi pallet carichi di materiali. Sono le ultime fasi del trasloco. «So bene che non è un momento facile. Dopo due decenni d’attività la Nato ha deciso di chiudere questa esperienza. Ma sosterremo l’Afghanistan nel difendere i successi raggiunti», dice il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Assieme al capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli, ricordano i 53 militari caduti. Non sono morti invano. L’Italia ricorderà sempre», ribadiscono. Dal 15 maggio il processo di ritiro è stato accelerato. «Ormai è solo una questione logistica. Stiamo andando veloci. Sino a poche settimane fa avevamo decine di migliaia di metri lineari di materiali da essere imballati e messi sugli aerei. Ora ne restano meno di mille», aggiunge il generale Luciano Portolano, che coordina la logistica per il Comando Operativo Interforze, lasciando intendere che anche gli ultimi circa 800 paracadutisti della Brigata Folgore al comando del generale Beniamino Vergori (un veterano dell’Afghanistan), assieme alle unità di supporto dell’Aviazione potranno lasciare il Paese addirittura prima del 4 luglio. Campo Arena è già vuoto.
Guerini insiste sul valore della missione. Ricorda le ragioni dell’intervento Nato nell’autunno 2001 in risposta agli attentati di Al Qaeda negli Stati Uniti. «C’è da chiedersi cosa sarebbe stato di questo Paese se non fossimo intervenuti. Grazie a noi la società afghana è progredita. Ce ne andiamo dopo aver ottenuto risultati importanti per la sicurezza internazionale e per la libertà del popolo afghano. Ci sono stati progressi nei diritti delle donne, nella vita democratica, ora si tratterà di aiutare a difenderli», spiega. La sua attenzione è adesso rivolta all’Africa, dove la presenza italiana sta crescendo nel tentativo di contrastare le nuove minacce jihadiste.
Ma qui ad Herat le sue parole non nascondono le immense incertezze per il futuro. Lo dimostrano i circa 270 interpreti e collaboratori locali che portiamo via con noi, alcuni vengono con le famiglie. Altri 400 attendono di ottenere il visto. «I loro casi sono sotto esame», dice Guerini. L’intera missione internazionale se ne va accompagnata dall’incubo dell’avanzata talebana, il timore che Al Qaeda e Isis approfittino del nuovo «Stato fallito» per allargare le loro basi locali utilizzandole come trampolino di lancio per le operazioni all’estero. I discendenti del Mullah Omar nei negoziati di Doha con gli americani e il governo di Kabul promettono che loro saranno diversi dal tempo in cui davano asilo a Osama Ben Laden. Intanto però tante scuole per ragazze vengono chiuse o limitate nei loro programmi nei territori sempre più vasti, che via via cadono sotto il loro controllo. Nonostante le speranze espresse ad Herat, lo scenario che si prospetta sembra l’eclissi di un grande progetto di rinnovamento della società civile che mirava a rilanciare i diritti umani fondamentali. I talebani promettono un «futuro di pace», ma cresce il numero degli ufficiali governativi, soldati e poliziotti afghani rapiti o uccisi giorno dopo giorno. I giornalisti rischiano continuamente la vita. Gli americani e i comandi Nato ancora non lo dicono apertamente, però oltre il 50 per cento del Paese è fuori controllo. I servizi di sicurezza della Croce Rossa Internazionale e delle maggiori organizzazioni non governative sottovoce ammettono che il caos investe ormai il 70 per cento del Paese. Solo le città maggiori obbediscono ancora parzialmente al governo centrale di Ashraf Ghani, le campagne sono preda dei nuovi «signori della guerra» e dei jihadisti di ritorno.
Non a caso il ritiro dei contingenti internazionali avviene col massimo delle misure di sicurezza. Le loro basi sembrano fortini assediati. Le visite ministeriali sono tenute segrete per la paura degli attentati. C’è da chiedersi se i miliardi spesi dalla Nato per l’addestramento delle forze di sicurezza afghane non siano stati buttati via. A vedere la gravità delle loro sconfitte viene in mente la rotta dell’esercito iracheno (a sua volta addestrato dalla coalizione capeggiata da Washington di cui fa parte anche l’Italia) di fronte ai tagliagole di Isis a Mosul nel giugno-luglio 2014.
Del resto, cosa si poteva fare di diverso? Che senso aveva proseguire un impegno come questo, scatenato con il beneplacito Onu in risposta agli attentati qaedisti del 11 settembre 2001, e che dopo un ventennio sembrava ormai sempre più impantanato? «La campagna afghana è stata oltre quattro volte più lunga della Seconda Guerra Mondiale», sottolinea sempre più scettica la stampa americana. Scegliere non è facile: restare non garantisce nulla, l’unica certezza sarebbe lo stillicidio di nostri soldati morti o feriti; partire apre però a prospettive gravi.
Un momento della cerimonia
All’inizio non fu certo così. La prima avanguardia di soldati italiani atterrò alla base di Bagram il 30 dicembre 2001. Una quarantina di chilometri più lontano, sul fondo della vallata, Kabul aveva assistito alla fuga disordinata dei talebani meno di due mesi prima. I Carabinieri del Tuscania assieme ai soldati del Cavalleggeri Guide si trovarono di fronte le rovine di una città che era stata in guerra da oltre tre decadi. Ovunque si vedevano le carcasse dei carri armati e cingolati trasporto truppa russi. L’Afghanistan nel 1989 era stato il Vietnam dell’Urss contro la «guerra santa» dei Mujaheddin sostenuti da Washington. «Questa non sarà l’ennesima invasione fallita», ripeteva il presidente George Bush, convinto di aver vendicato gli attacchi contro l’America, deciso di prendere presto Osama Bin Laden (sarebbe avvenuto soltanto 10 anni dopo), e felice di limitare il numero delle truppe Usa di terra facendo ampio uso delle milizie tribali locali passate armi e bagagli dalla parte dei nuovi vincitori.
Il ministro Lorenzo Guerini durante la cerimonia
Per qualche tempo si puntò sulla democrazia interna. Il nuovo presidente Hamid Karzai, pashtun come i talebani, prometteva il rinnovamento. Si riaprivano le scuole femminili. Le banche si connettevano col mondo, si ricostruivano strade, ponti, sistemi d’irrigazione, l’aeroporto della capitale venne interamente rifatto. Roma il 3 ottobre 2002 votava per mandare 1.000 Alpini destinati alla città. Intanto però l’attenzione internazionale si concentrò sull’Iraq di Saddam Hussein. L’Onu non sostenne l’attacco americano del marzo 2003. L’Afghanistan per un attimo parve dimenticato. Ma in agosto ci si accorse che la situazione degenerava. I talebani scappati in Pakistan stavano rialzando la testa, i vecchi «signori della guerra» si spartivano il Paese, ripartiva alla grande il mercato della droga. Il 13 ottobre 2003 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu tentò di correre ai ripari approvando l’estensione del mandato della missione militare a tutto il Paese. L’Italia, oltre a partecipare alla messa in sicurezza della zona di Kabul, si vide affidata l’intera parte occidentale nella regione di Herat. Comparvero i Prt, gli organismi di sostegno ai civili. In breve tempo si era passati dalla caccia militare contro Al Qaeda alla scelta di ricostruire l’Afghanistan intero. Un impegno enorme. L’intero contingente Nato-Isaf vide coinvolti attivamente un’ottantina di Paesi. Nel primo mandato di Barack Obama i soldati internazionali giunsero al picco di oltre 142.000. Quelli italiani sfiorarono quota 5.000, dislocati in otto avamposti principali, alcuni remoti e circondati da villaggi ostili come Bala Morghab o la base «Ice» nel Gulistan. Combattevamo senza troppo sbandierarlo. I costi si fecero stratosferici per Nato-Isaf: già allora venivano stimati quasi 900 miliardi di dollari complessivi.
Ma i risultati restarono scarsi. La guerriglia talebana aveva ripreso forza già dal 2006, specie nelle regioni orientali al confine con le «zone tribali» pakistane e nel sud tra Helmand e Kandahar. Crescevano i morti. La prima vittima italiana fu il caporal maggiore Giovanni Bruno, a seguito di un incidente stradale il 3 ottobre 2004. Il primo attacco mortale avvenne invece il 5 maggio 2006, quando una bomba esplose al passaggio di un convoglio di blindati, uccidendo il capitano Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli. Da allora gli italiani militari uccisi sono diventati 53. L’intera coalizione ha perso quasi 3.600 soldati.
Non che siano mancati i tentativi di rinnovamento. Nel gennaio 2015 la missione da combattente si trasformò in «Resolute Support». A parte piccole unità di commando Usa e britanniche, il resto degli internazionali doveva limitarsi ad addestrare le forze di sicurezza afghane. Il numero delle truppe scese a meno di 20.000. Quasi 900 italiani operarono per lo più ad Herat. Ma anche in questo caso i risultati sono stati scarsi. Si calcola che i militari afghani morti dal 2002 siano oltre 65.000, la grande maggioranza dal 2015 ad oggi. Le vittime civili potrebbero essere un quarto di milione. E poco lascia credere il dato non debba peggiorare.
8 giugno 2021 (modifica il 8 giugno 2021 | 16:51)
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