L’amore muto delle donne senza voce che cent’anni dopo brucia ancora
“L’amore muto” dà il titolo alla raccolta di racconti di Pia Rimini, che la casa editrice Readerforblind ha appena pubblicato. Una preziosa riscoperta - quattro anni dopo l’uscita in forma di e-book del suo primo romanzo, “Il giunco” (1930) per Tombolini editore, con la prefazione di Maria Neglia - che restituisce intatte la potenza e la ricchezza della scrittura di un’autrice diventata precocemente famosa tra gli anni Venti e Trenta, recensita non solo da giornali femminili come “Lidel”, ma dal Corriere della Sera, dal Popolo d’Italia, dal Giornale d’Italia, dal Marzocco, dall’Italia Letteraria. Di lei la la Stampa scrisse “più del Soldati e del Moravia possiede qualità davvero promettenti”.
Oggi Pia Rimini non la ricorda quasi nessuno. Nata nel 1900 a Trieste da un’ottima famiglia borghese e morta ad Auschwitz nel 1945, fu portata alla Risiera a causa del cognome ebreo nonostante si fosse convertita al cattolicesimo e battezzata. Nulla potè l’intercessione del vescovo Antonio Santin, amico di famiglia, il “pastore santo” che l’aveva guidata ad abbracciare la fede cattolica all’annuncio delle leggi razziali.
Al di là della sua prosa, forte, piena di odori, sapori, umori, vicina ai moduli del verismo ma al tempo stesso originale, al di là dei temi, che oggi rileggiamo con stupore per la modernità e la sensibilità dello scavo nella psicologia femminile, è la stessa vita di Pia Rimini ad avere molto del romanzo. Affascinante, coraggiosa, a diciott’anni restò incinta di un ufficiale arrivato a Trieste con l’esercito liberatore e decise di portare avanti sola la gravidanza, che si concluse col dramma della nascita di un bambino morto. Questo strazio personale attraversa quasi tutti i racconti de “L’amore muto”, dove la maternità negata, strappata, umiliata è uno dei motivi ricorrenti, sempre affrontato in modo viscerale e con uno sguardo empatico nei confronti delle vittime, madri e bambini. Diventata scrittrice di successo, Pia Rimini si sposò nel 1937 con Ercole Rivalta, anch’egli ebreo e molto più anziano, giornalista irredentista, antisocialista e antislavo, che l’aveva aiutata a emergere come autrice nel panorama nazionale. Il matrimonio finì dopo poco col divorzio. Pia passò per la Risiera e da lì fu messa su un convoglio diretto al campo di sterminio polacco.
È un paradosso - scrive Giulia Caminito nella prefazione alla selezione dei diciotto racconti - che in passato la scrittrice sia stata criticata per essere “ripetitiva” - perchè le sue protagoniste sono sempre usate dagli uomini e disperate - “presenzialista” - perchè prendeva la parola a tutte le conferenze - “permalosa”, perchè si accalorava e non gradiva le critiche. Sono proprio questi “difetti” che oggi ne sollecitano la riscoperta e l’approfondimento. Una donna convinta delle sue scelte, sicura nell’esporle pubblicamente, un’intellettuale che nel periodo in cui nascono i primi movimenti femministi in tutta Europa e, a causa della guerra, la componente femminile entra massicciamente nell’industria, nell’agricoltura, nella sanità, si fa paladina delle istanze e dei diritti delle donne, in famiglia e nei luoghi di lavoro. Una scrittrice che si mette in dialogo ideale con Ada Negri, Matilde Serao, Amanda Guglielminetti, Sibilla Aleramo, ai cui registri l’avvicinano molti passi de “L’amore muto”, pur mantenendo ognuna di queste autrici la personalità del suo sguardo e della sua cifra.Perché l’amore muto? Perché la protagonista del racconto è il paradigma di tutte le altre che incontriamo in questi scritti. Secca, gialla, Sollazzi Letizia, inaridita senza essere mai fiorita. Una ragazza affamata d’amore a cui la Sora Domenica, una sorta di sensale di unioni sbilenche e di opportunità, procura una marito che non sarà mai tale. “Attese una, due, tre notti, una settimana, un mese, e l’amore aveva sempre la stessa faccia spietatamente serena: un bacio in fronte, la mattina, una stretta di mano prima e dopo l’ora di ufficio e la sera una buona notte che usciva di tra il guanciale e le lenzuola, bianco e freddo. Poi: il buio. E attesa e oscurità diventavano tutta un’angoscia sbigottita, turgida di rancore”.
Tra i ritratti di Pia Rimini c’è Cicciotta, la cameriera quindicenne che respira sul lenzuolo gli odori e le forme dell’uomo al quale ogni mattina rifà il letto, quel signor Francesco che la prende come una cosa sua, mentre a lei resta solo l’angoscia delle lenzuola di bucato macchiate e di un alone di unto sui pantaloni di lui da togliere. E la Mora, cameriera e prostituta per tirar su il figlioletto, che si concede il lusso di amare e scopre l’inganno dell’uomo con cui aveva sognato una famiglia solo dopo la sua morte, costretta all’umiliazione di fingere davanti alla vedova. E Teresa, la protagonista del racconto d’apertura, “Maria e Giacomo”, una donna che ha appena perso il suo bambino e che non potrà averne altri. Nei pensieri che la attraversano nel suo letto ospedale riconosciamo il tormento mai risolto dell’autrice, quella smania di essere in qualche modo ricambiata nel suo dare e darsi che non trova esito.
A Pia Rimini - fa notare Giulia Caminito - venne riconosciuto fin dalle prime recensioni la capacità di raccontare le donne della sua epoca, ragazze costrette a matrimoni di convenienza, ingannate con finte promesse, abusate nel silenzio di tutti, sfruttate nel lavoro e nel letto, tormentate da figli perduti, malnutriti, sottratti, donne stroncate in ogni tentativo di ribellione a un destino imprigionato nei ruoli sociali. Forte è l’attenzione al corpo femminile, spesso descritto nei sussulti di una passione che è tutta sogno e aspettativa, e finisce avvilita al contatto con la brutalità è l’indifferenza.
E sorprende quanto l’autrice riesca a parlare in modo così diretto, scoperto e insieme delicato, della sensualità delle sue protagoniste. Donne che cercano l’amore ma anche il piacere, percepito, certo inconsciamente, in modo confuso e contraddittorio, ma in qualche modo come uno scopo a cui aspirare, come la ragazza anonima del racconto “Il calice che non si svuota”: “La sera, nel suo lettuccio, diceva entro sè: sono sua; e si premeva sul materasso, pensando che fosse lui. E provava una gioia intensa al pensiero che niente poteva fare che ciò che era stato, non fosse. Si toccava la pelle dove lui l’aveva toccata e sentiva sulle dita la forma e il calore della sua carezza”. È passato un secolo. Pia Rimini ha raccontato il suo tempo guardando molto avanti. Scavando dentro ferite, che oggi si riaprono sul corpo delle donne. Ecco perché la sentiamo ancora viva.