L’Atlante delle donne di Joni Seager e la mappa delle disparità |
Nell’introduzione de L’atlante delle donne di Joni Saeger, edito da add editore (6a rist. 2021) nella traduzione di Florencia Di Stefano- Abichain, l’autrice definisce il libro «non solo un atlante del femminile», ma una «rimappatura del mondo, attraverso una lente che permette di guardare per davvero il mondo in cui le donne vivono».
Joni Saeger, docente di Global Studies alla Bentley University di Boston e geografa esperta in politica ambientale femminista e economia politica, è anche consulente per le Nazioni Unite per le politiche ambientali e le statistiche di genere. Si definisce una ‘geografa femminista’ e nel suo Atlante spiega che femminismo significa «dare alle vite delle donne la stessa attenzione, curiosità e analisi che le vite degli uomini normalmente ricevono» e parlare genericamente di diritti umani significherebbe minimizzare la «specificità del problema di genere». Scriverne servendosi degli strumenti del geografo (dati, infografiche, cartine, mappe) le ha consentito di evidenziare contrasti e incoerenze, con l’auspicio che il lettore o meglio «nessuno, uomo o donna che sia dovrebbe fare a meno di questo libro» (Gloria Steinem, attivista femminista) e che questo testo, più che rispondere, stimoli domande.
«La geografia è una disciplina meravigliosamente variegata da cui osservare il mondo», da un’intervista dell’autrice dell’Atlante delle donne al illibraio.it
Diviso in 10 sezioni (compresa l’introduzione), l’Atlante delle donne è uno strumento facile da consultare anche grazie ad un accurato indice analitico e ad un ricco apparato bibliografico: Le donne nel mondo; Tenere le donne al loro posto; Diritti di nascita; Politica del corpo; Salute; Lavoro; Istruzione e connettività; Proprietà e povertà; Potere, in cui trovano spazio le nuove sezioni relative ai dati sul traffico sessuale, la pornografia e il rapporto con l’ambiente. Nonostante dalla prima edizione di questo Atlante (1986) siano stati registrati molti “successi”, la lista delle conquiste femminili è ancora breve e «nel mondo delle donne esistono pochi Paesi ‘sviluppati’».
Gli Stati della CEDAW (al 2018), unico trattato globale sui diritti delle donne secondo cui i governi si impegnano a sviluppare politiche per eliminare le discriminazioni contro le donne, non hanno talvolta ratificato la firma e quindi non sono vincolati dallo stesso (Stati Uniti e Palau), ma esistono anche quattro Stati che non hanno né firmato né ratificato il documento (Sudan, Iran, Somalia e Tonga).
Le donne subiscono restrizioni e discriminazioni in molti ambiti, misurate dal Global Gender Gap Index (sviluppato dal World Economic Forum) e dal Social Institution and Gender Index (elaborato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Le discriminazioni cominciano fin dalla nascita: nel mondo ci sarebbero tra i 117 e i 126 milioni di persone in più se non esistesse la preferenza per il figlio maschio (attualmente soprattutto in Albania, Montenegro e Vietnam).
In alcuni paesi come India e Cina, ad esempio, si prediligono i bambini (la Corea del Sud ha invertito la proporzione negli ultimi 30 anni) e in molti paesi africani e asiatici avviene sia una selezione prenatale (con ultrasuoni) tramite aborto che postnatale del sesso, con un aumento degli infanticidi femminili (anche attraverso la negligenza intenzionale). Tuttavia, in paesi come Marocco, Turchia e Emirati Arabi Uniti è ancora necessario il consenso del marito per l’aborto e le politiche mondiali si dividono sul tema. 56 milioni sono gli aborti annualmente, di solito dove la contraccezione è disponibile o l’aborto consentito e perlopiù su scelta di donne sposate (73%, dati del 2017).
«Il corpo è mio e lo gestisco io»
Oltre all’aborto, la politica del corpo delle donne tocca altre importanti problematiche, i cui dati sono stati raccolti da gruppi femministi locali, quali la mutilazione genitale femminile (FGM/C) con rasoi e raschietto senza anestesia; il turismo (fra le mete anche Spagna e Germania) e il traffico sessuali; la prostituzione (in molti luoghi del mondo le prestazioni sessuali sono barattate per sostenere le famiglie dopo i disastri ambientali e la distruzione delle risorse); stupri, pornografia, revenge porn e violenze.
Normative sessiste e disuguaglianze di genere, limitato accesso ai servizi per la salute riproduttiva, povertà, insicurezza alimentare e coercizione sessuale favoriscono il rischio di infezioni, soprattutto di HIV, tubercolosi, malaria: acqua potabile, accesso ai bagni (vedi “right to pee”) e prevenzione dei cancri femminili non sono sempre garantiti (con aumento anche della mortalità materna).
Istruzione e lavoro
Anche l’istruzione gioca un ruolo importante ma nonostante i progressi nell’alfabetizzazione e istruzione sono le studentesse a lasciare la scuola prima del completamento dell’istruzione primaria, soprattutto se insorgono difficoltà insuperabili come guerre e povertà familiari. Si pensi che dal 2012 in Europa una percentuale di studentesse tedesche fra il 40 e il 49% frequenta l’università e negli Stati Uniti solo il 25% delle donne nere è laureato, mentre le asiatiche raggiungono il 70% a fronte del 46% delle donne bianche (dati del 2016). L’ultima ad ammettere le donne all’università è stata la prestigiosa Harvard nel 1977 (gli studenti la frequentavano dal 1636!).
Per quanto riguarda il lavoro, a parità di prestazione, ovunque nel mondo le donne, cui sono ancora negate alcune attività (es. in Russia non possono guidare treni e in Argentina distillare e vendere alcool), sono pagate di meno rispetto agli uomini e il divario aumenta a seconda dell’età e dell’etnia. Negli Stati Uniti l’azione legale nel 2011 sostenuta dalle lavoratrici di Walmart per gender pay gap (avviata per un guadagno inferiore di 1100$ annui rispetto ai colleghi) è stata archiviata dalla Corte Suprema, perché “la categoria” non era stata validamente costituita. L’Islanda, invece, costituisce un esempio virtuoso (seppur tardivo) perché nel marzo 2018 ha dichiarato illegale il lavoro salariale di genere, pretendendo che eventuali differenze di retribuzione non siano dovute al genere.
A proposito di disparità nella posizione delle donne in società, nella maggioranza dei paesi del Mondo esse non hanno diritto a possedere e amministrare proprietà oppure i loro diritti sono surclassati da tradizioni antiche che non consentono loro di gestire i propri beni materiali: secondo il Forum Economico Mondiale il divario di genere, acuito anche dalla globalizzazione, non si risolverà nei prossimi 217 anni!
In alcuni Paesi è ancora interdetto il diritto di voto, anche se le posizioni delle donne al potere sono crescenti, e le quote rosa sono passate dal 3% nel 1945 al 23% nel 2017: ma ad esempio Stati Uniti, Russia e Cina non hanno mai avuto una donna come Presidente. Nel 2015 in Italia il 44% dei ruoli ministeriali era di appannaggio femminile a fronte del 63% della Finlandia e del 50% francese, mentre nel 2017 sono le donne della delegazione maltese quelle più presenti nel Parlamento Europeo.
Pertanto, possiamo effettivamente sostenere l’affermazione della liberiana Leymah Gbowee, Premio Nobel per la pace 2011, secondo la quale, anche se l’Atlante delle donne «porta la vita delle donne fuori dall’ombra», ci indica tuttavia «quanta strada ci sia ancora da fare» per il raggiungimento della piena parità di diritti.
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