Parole. Condanna e redenzione - Corriere di Taranto
La violenza sulle donne è un fenomeno complesso. Per generazioni è stata sottaciuta, nascosta. La sua portata era sminuita perché faceva parte della routine familiare. La violenza era una voce del bilancio di famiglia. Ed ha cominciato ad essere compresa e contrastata in modo efficace, con l’inizio dello studio delle dinamiche dei contesti e delle norme sociali e culturali in cui si sviluppa e si è sviluppata.
Sono i modelli culturali ad influenzare le opinioni che le persone hanno nei confronti della violenza contro le donne e in particolare quelle relative ai ruoli di genere e ad alcuni stereotipi rispetto alle relazioni familiari e amicali.
L’Istat, nel 2017, ha realizzato un modulo dedicato alla rilevazione degli stereotipi sui ruoli di genere, inserendo, per la prima volta, le opinioni sull’accettabilità della violenza, sulla sua diffusione e sulle sue cause.
Si evince che il linguaggio, ha contribuito alla costruzione di quella che si si definisce rape culture (cultura dello stupro), concetto coniato a partire dal 1970 nell’area della sociologia e degli studi di genere. E, per cultura dello stupro, intende un sistema sociale e culturale in cui la violenza sessuale viene normalizzata e giustificata. Il linguaggio è il cemento di questa struttura.
Il risultato è che gli uomini commettono stupri perché hanno imparato che la violenza sessuale contro le donne è accettabile e che non comporta nessuna conseguenza né a livello giuridico né sociale.
La piramide della rape culture evidenzia quali siano i comportamenti che alimentano questa sovrastruttura: l’uso di un linguaggio che oggettivizza e sessualizza il corpo delle donne, le battute sessiste, giudicare le donne in base alla loro condotta sessuale e a come si relazionano con il proprio corpo, colpevolizzare e far provare vergogna alla vittima invece che al suo aggressore, la mancanza di informazioni su che cosa effettivamente siano lo stupro e la violenza sessuale, l’assenza di educazione sessuale, affettiva e al consenso nelle scuole.
Emblematico è il caso della Corte d’Appello di Firenze, condannata a fine maggio 2021 dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro con una sentenza che contiene “dei passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima”, e “dei commenti ingiustificati”, attraverso un “linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana”.
Vediamo nel dettaglio. La vicenda riguarda l’assoluzione fatta nel 2015 dalla Corte di Appello di Firenze nei confronti di sette giovani accusati di violenza sessuale di gruppo. Secondo l’accusa il gruppo aveva abusato di una ragazza il 26 luglio 2008. Sei di loro erano stati condannati in primo grado ma in appello sono stati assolti.
Proprio su questa seconda sentenza la Corte di Strasburgo ha accolto il ricorso della vittima condannando l’Italia a risarcirle un danno di 12mila euro per aver violato aspetti della sua vita privata.Il pronunciamento della Cedu non è entrata nel merito dell’assoluzione ma ha censurato i contenuti sessisti delle motivazioni di secondo grado.
“Ingiustificato – scrivono i giudici europei – il riferimento alla biancheria intima che la ricorrente indossava la sera dei fatti, come i commenti sulla sua bisessualità, le sue relazioni sentimentali o i rapporti sessuali che aveva avuto prima dei fatti presi in esame”.
Essere bisessuali non è un’aggravante in nessun caso. Tranne per i giudici di Strasburgo, che per la corte toscana, hanno giudicato “inappropriate le considerazioni fatte sull’attitudine ambivalente rispetto al sesso della ricorrente”.
Per l’accusa, dopo aver passato la serata insieme al gruppo di giovani che la fecero ubriacare, la ragazza venne accompagnata in un parcheggio vicino alla Fortezza da Basso di Firenze dove, in auto, avvenne lo stupro. Dopo la denuncia gli imputati furono arrestati. Il processo di primo grado si concluse nel gennaio 2013, con sei condanne a 4 anni e 6 mesi di reclusione e un’assoluzione. Due anni dopo, marzo 2015, la Corte di Appello assolse tutti ‘perché il fatto non sussiste’. La procura generale di Firenze non presentò ricorso in Cassazione ponendo fine di fatto alla vicenda giudiziaria.
La sentenza europea del 27 maggio 2021 potrebbe far scuola in tutti quei processi che finiscono per punire la vittima al posto dei colpevoli. In tutti quei processi nei quali si pongono domande sbagliate, violando ancora una volta il diritto alla riservatezza, ma anche alla verità.
“Come ti eri vestita?”, “Quali scelte hai fatto in passato sulla sessualità?”, “Quali idee hai in fatto di arte e cultura?”. Sulla base delle risposte a queste domande deplorevoli, la Corte di Firenze ha giudicato inattendibile la ragazza e ha assolto tutti gli imputati. Per Strasburgo invece, le risposte a queste domande sono del tutto irrilevanti.
Il merito è dell’Associazione DIRE, Donne in Rete contro la Violenza che ha presentato ricorso a Strasburgo sulla base dell’articolo 8 della Costituzione. Recita: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
Da qui in poi, il lavoro “culturale” sugli stereotipi inesistenti dovrebbe partire abbattendo la lista di regole che le donne “devono” rispettare per non subire uno stupro: non camminare sola per strada, non indossare abiti corti, non bere, non andare alle feste, non andare a casa di conoscenti che potrebbero “fraintendere”. E altre boiate del genere.
Decenni di analisi e statistiche, ma si chiede ancora alle donne di essere vigili e di stare in allerta, quando il messaggio educativo che dovremmo lanciare è che sono gli uomini a dover imparare a rispettare le donne e il loro consenso.
Le regole del manuale anti-stupro trasmesse da generazione in generazione non sono altro che la sintesi di luoghi comuni e stereotipi legati alla violenza sessuale.
E che in qualche modo ne perpetuano l’esistenza.