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Se l’Unione europea vieta il velo e promuove i diritti lgbt- Corriere.it

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

«Il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose può essere giustificato dall’esigenza del datore di lavoro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali» ha stabilito la Corte di Giustizia Ue il 15 luglio scorso. Il caso, di cui ha dato notizia Francesca Basso sul Corriere, riguarda due donne dipendenti di aziende tedesche che avevano subito sanzioni sul lavoro perché portavano il velo ed è l’ultimo di una serie di sentenze in cui la Corte ha ribadito la legittimità di divieti simili (qui i precedenti riportati da Altalex). Le due impiegate tedesche quando erano state assunte non avevano il velo, ma poi, al rientro dal congedo di maternità, hanno iniziato a indossarlo. E i loro datori di lavoro si sono opposti, sospendendole, ammonendole o trasferendole quando le lavoratrici si sono rifiutate di toglierlo. Adesso i giudici di Lussemburgo hanno evidenziato che la giustificazione al divieto di indossare simboli religiosi «deve rispondere a un’esigenza reale del datore di lavoro» e «i giudici nazionali, nella conciliazione dei diritti e degli interessi in gioco, possono tener conto del contesto specifico» dello Stato membro e, in particolare, «delle disposizioni nazionali più favorevoli per quanto concerne la tutela della libertà di religione», ma che vietarlo — se sussiste tale esigenza, per esempio quella di rimanere “neutrali” — non è una discriminazione. E questo visto anche che il divieto dei simboli, in almeno uno dei due casi, era generale e non limitato alla religione islamica, dato che «il datore di lavoro interessato ha del pari chiesto e ottenuto che una lavoratrice che indossava una croce religiosa togliesse tale segno».

L’Ue apre una procedura di infrazione contro Polonia e Ungheria

La sentenza della Corte di Giustizia Ue è stata pubblicata il 15 luglio, lo stesso giorno in cui l’Unione europea ha deciso di aprire la procedura di infrazione contro Polonia e Ungheria perché violano i diritti fondamentali delle persone lgbt. L’Economist parte da questa coincidenza per descrivere il diverso atteggiamento dell’Unione nei confronti dei diritti delle minoranze. La legge ungherese vieta la rappresentazione positiva delle persone lgbt nelle scuole (il regime di Viktor Orbán la ritiene «propaganda») e la Commissione Ue, che non ha quasi nessuna competenza sulla scuola, per fermarla ha cercato un cavillo alla Al Capone (il boss mafioso di inizi Novecento arrestato non per gli omicidi di cui era mandante ma per evasione fiscale). L’ha trovata nella direttiva sui media audiovisivi che ne garantisce la libera circolazione in tutta la Ue.

I diritti delle minoranze? «L’Ue può difenderli o può assumere il pregiudizio»

«È stato un momento curioso. Una legge progettata principalmente per assicurare che i canali televisivi europei non siano sommersi dalle importazioni americane si è trovata ad essere usata per fermare una legge ungherese sull’istruzione. Nel frattempo, le leggi dell’Ue contro la discriminazione sul posto di lavoro hanno offerto poca protezione alle donne musulmane licenziate per il loro copricapo. Quando si tratta dei diritti delle minoranze, l’Ue può essere un alleato o un complice: può difenderli o può assumere il pregiudizio» nota l’Economist. Secondo il settimanale britannico queste due diverse prese di posizione sono dunque la prova di quanto conti la volontà politica dei paesi (e degli elettori) europei quando si tratta di diritti delle minoranze. Oggi un terzo dei paesi dell’Unione ha leggi o regole che vietano i copricapi religiosi a determinate condizioni. E la sentenza della Corte di Giustizia lo riflette. Al contempo i diritti lgbt sono sempre più riconosciuti, e l’azione della Commissione contro Ungheria e Polonia lo riflette. «I politici europei parlano sempre più spesso di “valori europei”. Prima, questi segnalavano luoghi comuni. I valori europei ammontavano a democrazia, dignità umana e lunghe vacanze in agosto» scrive l’Economist. Ora, non è più così, e questo impone all’Unione di essere meno asettica e neutrale, più politica. «Le istituzioni europee devono scegliere da che parte stare, qualcuno deve vincere e qualcuno deve perdere».

Sì ai crocifissi nelle aule scolastiche

C’è poi la questione di merito. Se il diritto — anche delle aziende — alla laicità è sacrosanto, è anche vero che il divieto riconosciuto dall’Ue viene di solito sollevato nei confronti di religioni minoritarie. Le sentenze di questo tipo riguardano quasi sempre il velo musulmano o il turbante dei Sikh e quasi mai i crocifissi, che anzi la Corte europea dei diritti umani Cedu ha stabilito si possano esporre nelle aule scolastiche (la Cedu però è un organo indipendente dall’Ue). Senza scomodare la religione, come reagirebbe l’opinione pubblica a un datore di lavoro che vieta di indossare un ciondolo con la bandiera arcobaleno?

Per molte donne europee di religione islamica indossare il velo significa non rinunciare alle proprie radici

Certo, la bandiera arcobaleno rappresenta una conquista di libertà e non c’è niente di più europeo dei valori della libertà e della democrazia. Mentre storicamente il velo è un segno della sottomissione delle donne. Ma i contesti, come rilevano anche i giudici Ue, contano. Oggi per molte (giovani) donne europee di religione islamica il velo rappresenta una cosa completamente diversa: la libertà di non rinunciare alle proprie radici, alla dimensione fondante della loro spiritualità (analogamente alla kippà, lo zucchetto degli uomini ebrei, non viene vista come un segno di sottomissione di genere ma di appartenenza religiosa). Detto altrimenti: in un contesto in cui il velo è un obbligo per tutte le donne — la teocrazia iraniana per esempio — vietarlo è progressivo. Ma farlo dove ognuna è libera di scegliere se portarlo o meno, diventa repressivo. E rischia di rinforzare i pregiudizi contro le donne islamiche. Per questo più che una conquista di libertà la sentenza della Corte Ue sembra una discriminazione velata. Se abbiamo davvero a cuore la libertà delle donne musulmane, in particolare quelle immigrate, forse dobbiamo preoccuparci che abbiano accesso a tutte le risorse che garantiscono la possibilità di scelta autonoma, prima di tutto istruzione e lavoro. Ma di questo si dibatte molto meno.

29 luglio 2021 (modifica il 29 luglio 2021 | 11:47)

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