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dal mobbing al "Glass Ceiling", la tutela giuridica

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

ITALIA – Dalla storica “Legge Anselmi” si avviò un lungo percorso, una vera e propria “battaglia” contro le differenze in ambito lavorativo tra uomini e donne, sia sul campo della retribuzione che nella gestione dei ruoli.

Notevoli passi in avanti sono stati compiuti, soprattutto se diamo uno sguardo all’excursus giuridico che ha contraddistinto l’Italia negli anni.

La strada, però, è ancora aperta e sicuramente il raggiungimento della parità tra uomini e donne in questo campo deve essere totalmente conquistato. L’obiettivo è ben chiaro, le tempistiche di realizzazioni ancora sono lacunose.

Questo perché – ancora oggi – si continuano a manifestare sul posto di lavoro fenomeni di discriminazione nei confronti delle donne, dal mobbing al “Glass Ceiling” (il cosiddetto “soffitto di cristallo“).

A che punto siamo, quindi, oggi? Che tutela giuridica hanno le donne? Per rispondere a questi e altri interrogativi, ai microfoni di NewSicilia è intervenuto l’avvocato Chiara Catania del Foro del capoluogo etneo.

Ancora oggi, nonostante l’aumento delle donne laureate, l’occupazione femminile è prevalentemente concentrata nei settori professionali dove le retribuzioni sono più basse. La Legge del 1977 fa approvata sì, ma di fatto mai realizzata pienamente“, spiega.

Sappiamo che la “lotta” per l’emancipazione femminile e il voto alle donne si riaccende agli inizi del Novecento. Dal Dopoguerra, infatti, vennero emanate leggi sempre più liberali nei confronti delle donne, eliminando tutte le limitazioni loro imposte durante il fascismo.

Vediamo nel dettaglio le principali:

  • con la legge 9 dicembre 1977 si prevede la parità di trattamento fra uomo e donna sul posto di lavoro;
  • con la legge del 22 maggio 1978, l’aborto è legalizzato in Italia (decisione confermata dal referendum del 17 maggio 1981);
  • con la legge n. 379 del 1990 viene stabilità l’indennità di maternità per le libere professioniste;
  • con la legge n.215/1992 viene promossa l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità per uomini e donne nell’ attività economica e imprenditoriale;
  • con la legge n.188/2007 vengono messe fuori legge le cosiddette “dimissioni in bianco“;
  • con la legge n. 120 del 12 luglio 2011 si impone alle società quotate una percentuale minima del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Vennero così istituite le quote rosa.

Il ruolo del Parlamento europeo

Anche il Parlamento europeo ha svolto un ruolo significativo nel sostenere le politiche per le pari opportunità, in particolare attraverso la commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere.

Nel novembre del 2009 il Parlamento europeo ha impegnato la Commissione a presentare entro il 31 dicembre una proposta legislativa sulla parità di retribuzione.

Ricordiamo la direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori, la quale mira a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra donne e uomini per lo stesso lavoro.

La definizione di salari minimi adeguati può altresì contribuire a ridurre il divario retributivo di genere, giacché più donne che uomini ricevono il salario minimo.

Parità fra i sessi ancora lontana?

Il lungo excursus normativo di oltre settanta anni di vita repubblicana evidenzia che la condizione femminile sia decisamente migliorata, ma è innegabile che l’Italia è ancora lontana dal raggiungimento di una piena parità fra i sessi e, soprattutto, dalla piena attuazione della sua Carta costituzionale“, aggiunge l’avvocato Catania.

Inoltre: “Le retribuzioni degli uomini in Italia sono superiori mediamente a quelle delle donne e ciò si verifica perché l’occupazione femminile è concentrata su lavori a più bassa retribuzione. Le donne inoltre hanno minori possibilità di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario“.

Il fenomeno del “Glass Ceiling”

Sappiamo, quindi, che la situazione lavorativa delle donne, in Italia e nel mondo, presenta ancora notevoli “ombre”, quali disparità di trattamento e discriminazioni relative a maternità. È ormai assodata l’esistenza di un divario tra il trattamento riservato alle donne e quello riservato agli uomini sul luogo di lavoro, e non solo dal punto di vista economico.

Realmente poche donne riescono a far carriera e ad accedere ai posti di comando aziendali, è come se fossero bloccate in un punto da cui, se non possono più scendere, non possono più neppure salire: questo fenomeno sociologico è conosciuto come ‘Glass Ceiling‘. Non c’è abbastanza spazio per tutte quelle donne ai vertici. Alcune si stanno orientando verso il lavoro autonomo. Altre stanno uscendo e mettono su famiglia“, puntualizza l’avvocato.

Molte donne devono ancora lottare per ottenere un impiego e molte altre devono fare lo stesso per essere trattate equamente. Ciò è un chiaro segnale di quando avere pari opportunità non significa essere davvero alla pari!“, aggiunge.

Cosa si intende per “Glass Ceiling” (o “soffitto di cristallo” o “tetto di vetro”)? “Si tratta di una metafora (coniata dal movimento femminista in riferimento alle barriere al raggiungimento delle carriere di alto livello per le donne) volta a rappresentare le difficoltà che le donne incontrano nel raggiungere i ruoli di vertice, di controllo, responsabilità e potere, riservati storicamente agli uomini: come se un soffitto di cristallo invalicabile permettesse loro di vedere l’obiettivo (il ruolo di comando nel proprio ambito lavorativo) senza avere la possibilità di raggiungerlo“, spiega la nostra intervistata.

Questa situazione è la concretizzazione estrema del più ampio fenomeno della “segregazione verticale”, termine con il quale si intende la concentrazione di uno dei generi in posizioni di vertice e comando nella gerarchia lavorativa, creando disparità di trattamento tra uomo e donna: i primi possono così accedere alle posizioni apicali, aumentando remunerazione e prestigio, mentre le donne risultano confinate in ruoli inferiori e senza possibilità di carriera ai vertici.

Barriere invisibili ma insormontabili

Le donne, per conseguire la parità dei diritti e la concreta possibilità di fare carriera sono costrette a dover affrontare un insieme di barriere sociali, culturali e psicologiche, che sono all’apparenza invisibili ma, in realtà, insormontabili. Nel tempo, così, il “Glass Ceiling” è diventato un baluardo da abbattere.

Nonostante sul piano legislativo non esista alcuna normativa che vieti alle donne di accedere alle posizioni lavorative più alte, nei fatti, il modus operandi delle aziende tende ancora oggi a preferire gli uomini in certi ruoli occupazionali“, afferma.

Se il problema è prima di tutto culturale ed educativo, appare chiaro che proprio da lì occorre ripartire per ripensare un modo diverso di concepire il lavoro. È però innegabile che anche la politicadeve impegnarsi per promulgare leggi nuove, o implementare quelle già esistenti in tema di lavoro femminile, per compensare questo sbilanciamento e consentire di rompere il Glass Ceiling“, prosegue.

Superare i pregiudizi

A fronte di questo fenomeno, “le forme di tutela potrebbero essere l’allungamento del congedo di paternità, magari stabilendo una retribuzione più alta per il congedo parentale e incentivando la flessibilità lavorativa per entrambi i genitori. Ma tutto ciò è impensabile se non prima si abbattono quegli stereotipi che caratterizzano ormai la nostra società, che contemplano le donne come le ‘meno preparate o meno intelligenti’, rendendole così meno ambiziose e fiduciose nel lavoro“.

Superare i pregiudizi è il punto di partenza per costruire una cultura inclusiva in cui ognuno possa essere valutato per capacità, e non per il genere di appartenenza.

Clima paritario: sì, ma come?

Per favorire un clima paritario all’interno di un’azienda occorrerebbe “valorizzare, a livello dirigenziale, la diversità delle risorse umane promuovendo un cambiamento di prospettiva e cultura, adottare misure orientate alla conciliazione vita-lavoro monitoraggio; flessibilità e smart working, promuovendo una modalità di esecuzione del lavoro contraddistinta dall’assenza di vincoli di orari e di spazio, garantire la disponibilità di strumentazione e proporre corsi di formazione, anche virtuali, in merito; valutare sistematicamente per posizioni manageriali anche profili femminili, in tema di maternità, gestire la carriera di una donna manager anche nei periodi di discontinuità, come il rientro dalla maternità o il cambio di ruolo“.

Altresì, “il raggio d’azione delle politiche in materia di genere dovrebbe essere ampliato per trovare il modo di promuovere la parità di genere nel carico di lavoro domestico non retribuito, che ancora grava enormemente sulle donne. Si dovrebbero compiere ulteriori sforzi per contenere entro certi limiti gli orari di lavoro a tempo pieno, in modo da promuovere un modello più equo di lavoro retribuito. I padri dovrebbero essere incoraggiati a usufruire più di frequente dei congedi parentali e di altre misure previste per adeguare l’orario di lavoro alle esigenze familiari“.

“Abbattere” il Glass Ceiling

Per risolvere la rigidità del modello occupazionale femminile, si dovrebbe cercare di valorizzare la qualità del lavoro a tempo parziale, migliorare la retribuzione e lo status delle professioni tipicamente femminili e ridurre la scarsa rappresentanza delle donne tra i gradi più elevati e i dirigenti“, ribadisce.

Inoltre: “Mentre fino a pochi anni fa la partecipazione femminile al mercato del lavoro spesso si interrompeva con la gravidanza e il parto, oggi le curve di occupazione femminile rivelano la tendenza, nella maggioranza dei casi, a rimanere attive anche dopo il parto. Questa propensione si innalza nel lavoro qualificato e professionalmente gratificante, per cui se ancora oggi molte operaie o addette ai lavori umili tendono a lasciare il lavoro per il compito familiare, le donne ad alta scolarità mantengono la posizione occupata prima della maternità“.

Per abbattere il Glass Ceiling, quindi, a detta dell’avvocato Catania: “Occorre creare un nuovo approccio al problema, grazie all’aiuto della politica e degli imprenditori. Nuove vie dove uomini e donne possano collaboraree non essere rivali e dove le differenze di genere possano diventare un valore e uno strumento per crescere e non un ostacolo“.

Il fenomeno del mobbing

Anche il mobbing, a pari del fenomeno analizzato in precedenza, in grado di produrre conseguenze negative non solo per i lavoratori interessati, ma anche per il loro contesto socio-familiare e per l’organizzazione del lavoro stesso.

Esso, è attualmente considerato una delle principali cause della riduzione del benessere lavorativo in grado di provocare nelle vittime anche problemi di salute mentale, come ad esempio depressione, ansia, idee suicidarie.

A livello demografico, in particolare, è stato osservato in numerose nazioni del mondo che le donne ne sono più frequentemente vittime. Si stima che, in Italia, siano 1 milione circa quelle che abbiano subìto molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro.

Inoltre possono capitare azioni negative quali osservazioni critiche sulle loro capacità lavorative, commenti che devalorizzano la posizione occupata o il loro valore professionale.

La tutela giuridica 

Molte donne, purtroppo, subiscono ancora ingiustizie come il licenziamento, il demansionamento e le discriminazioni durante e/o dopo la gravidanza. Ma la normativa interviene in loro difesa.

Non dimentichiamo, infatti, che “la legge protegge le mamme lavoratrici dalle violazione e permette loro di eliminare eventuali ostacoli alla loro carriera professionale. Per esempio le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza (300 giorni prima della data presunta del parto) fino al termine del congedo di maternità e fino a 1 anno di età del bambino“.

Ma non è tutto: “La lavoratrice in maternità è tutelata anche dal divieto di licenziamento in seguito a una procedura di licenziamento collettivo. La lavoratrice madre viene tutelata dal demansionamento, infatti deve essere adibita alle ultime mansioni da lei svolte o equivalenti, nonché beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro. Il demansionamento ingiustificato costituisce una forma di discriminazione diretta di genere“.

Congedo di maternità

È previsto anche il divieto di adibire la donna al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto (previsti tre mesi nel caso di lavori gravosi) e nei tre mesi successivi al parto, assicurando però alla lavoratrice durante questo periodo un trattamento economico a carico dell’INPS.

Questo periodo, detto congedo di maternità, è comunque computato nell’anzianità di servizio. Ancora: “La legge prevede periodi giornalieri di riposo durante il primo anno di età del bambino, o un orario di lavoro ridotto, così come il divieto di adibire la donna al trasporto e al sollevamento di pesi, a lavori pericolosi, o insalubri per tutta la durata della gravidanza e fino a sette mesi dopo il parto“.

In aggiunta: “È vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda: l’accesso al lavoro, attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, o in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda un lavoro al quale è attribuito un valore uguale tra uomini e donne per qualifica, mansione e crescita. Infine per causa di matrimonio“.

Tutela pre e post gravidanza

Diverse donne in Italia una volta rimaste incinte hanno subito violazioni e discriminazioni sul lavoro, molte dopo essere tornate dalla maternità si sono trovate a fronteggiare la totale ostilità dell’azienda per cui lavoravano, dei superiori e perfino dei colleghi.

Se si vuole lavorare ma anche crescere un figlio ti ostacolano, molti ai colloqui dicono che oggi avere figli è un problema… per cui neanche ti assumono. Spesso durante i colloqui di lavoro viene chiesto alla lavoratrice se ha pianificato una gravidanza e, a seguito di un risposta positiva, la stessa viene esclusa dall’assunzione“, precisa.

In questo caso è evidente la violazione dell’articolo 27 del D.L. 11/04/2006 n° 198. In base a quanto stabilito dall’articolo 36 dello stesso decreto il soggetto che ha subito la violazione può agire in giudizio al Giudice del Lavoro“, specifica.

Tra l’altro, “qualora la lavoratrice al rientro dalla maternità dovesse essere discriminata potrebbe agire in giudizio per ottenere un risarcimento del danno“.

Viene, altresì “ampliato il divieto di discriminazione per sesso, prima attraverso l’art. 8 del D. Lgs. 196/2000 e poi con il successivo D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145 – al quale si deve anche il merito di aver colmato la lacuna normativa della L. 903/1977, riguardante la previsione delle molestie sessuali sul luogo di lavoro”.

Mobbing “psicologico”

Le donne, purtroppo, sono anche vittime di mobbing “psicologico”, il quale consiste normalmente nella “sistematica svalutazione dell’attività della vittima, accompagnato da richiami e sanzioni disciplinari, demansionamento, spesso come forma di ritorsione a seguito di assenze per malattia o per maternità“.

Soprattutto in quest’ultimo caso non è raro che la donna, rientrando al lavoro, trovi i suoi compiti precedenti assegnati ad altri, oppure si trovi retrocessa ad altra attività. Spesso questi attacchi sono diretti ad indurre la lavoratrice a dimettersi. La circostanza è talmente frequente che con la legge n. 1204/1971 (riconfermata dalla L. n. 151/2001) si è definitivamente stabilito che le dimissioni delle lavoratrici madri devono essere convalidate dal Ministero del Lavoro“, chiarisce l’avvocato.

Alla raccomandazione 92/131/CEE della Commissione del 27 novembre 1991, riguardante la protezione della dignità degli uomini e delle donne al lavoro, è poi allegato un codice di condotta su come evitare e combattere le molestie sessuali; la direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, relativa all’applicazione del principio di uguaglianza di trattamento delle persone indipendentemente dall’origine razziale o etnica; la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

Normativa a favore della donna

Il legislatore, con il passare degli anni, non si è fermato a una tutela antidiscriminatoria del lavoro femminile, ma si è prodigato ad adottare misure che favorissero positivamente l’accesso delle donne ai posti di lavoro, introducendo una normativa delle pari opportunità d’impiego delle donne.

L’art. 37, comma 1, della Costituzione da un lato ha riaffermato gli obiettivi protettivi tradizionali della tutela differenziata del lavoro femminile, e dall’altro ha introdotto il principio della tutela paritaria mirata a garantire alle donne la parità di trattamento rispetto ai lavoratori adulti di sesso maschile“, sostiene l’avvocato Catania.

In una logica protezionistica, “la norma costituzionale statuisce che alla donna devono essere garantite le condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e alla protezione della maternità, con ciò giustificando l’emanazione di normative di tutela differenziata al fine del raggiungimento di tali obiettivi“.

In una logica paritaria, invece, “alla donna vengono riconosciuti gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. La tutela paritaria è, pertanto, da ricollegare al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Costituzione“.

Dalla logica protettiva, presente ancora nel dettato costituzionale, scaturiscono alcune leggi storicamente importanti di protezione delle donne: “La Legge n. 7/1963, tuttora vigente, stabilisce la nullità delle clausole di nubilato (che prevedevano le dimissioni forzate delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio), considerate nulle e come non apposte“.

In aggiunta: “La lavoratrice licenziata illegittimamente ha il diritto a essere riammessa in servizio e ha altresì diritto a ottenere il pagamento della retribuzione per tutto il periodo che va dal licenziamento fino alla data della effettiva riammissione nel posto di lavoro“.

In tema di inquadramento professionale, inoltre, “i sistemi di classificazione devono adottare criteri comuni per uomini e donne; si considerano, quindi, illegittime le classificazioni separate per sesso e le distinzioni a fini retributivi tra lavori considerati tipicamente maschili e lavori ritenuti femminili. Sono vietate, altresì, le discriminazioni nell’attribuzione di mansioni e di qualifiche e nella progressione di carriera.

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