Pari opportunità: solo belle parole!
“Creavit hominem ad imaginem suam; ad imaginem Dei creavit illum; masculum et feminam creavit eos” (Gen. 1, 27).
Sembra quasi banale parlarne ma il dibattito sulla parità di genere, che ha subito la bocciatura dei tre emendamenti in Parlamento, è importante perché ha rimesso in discussione la questione nel nostro paese. Le pari opportunità in Italia rimangono solo belle parole analizzando, infatti, la composizione del parlamento, risulta subito evidente come l’articolo 51 della Costituzione è del tutto disatteso. Solo il 30% dei deputati e dei senatori è donna; solo il 16% dei ruoli più importanti quali capogruppo, presidente di commissione, ufficio di presidenza è occupato dal “gentil sesso”; stesso discorso vale per la squadra di governo, sul totale dei ministri, le donne sono il 50% (sigh, sigh grazie a Renzi), ma se si restringe il campo ai soli ministeri con portafoglio, allora la percentuale scende al 35% e cala ancora, fino ad arrivare al 27%, se si prende in considerazione l’esecutivo nella sua interezza, vale a dire viceministri e sottosegretari compresi.
A livello locale la dinamica è la medesima: nelle giunte le donne sono il 29%, la percentuale scende al 18% quando si vanno ad analizzare gli assessorati più importanti e cala al 10% quando si restringe il campo ai soli presidenti di Regione; al 15% nella guida di una Provincia e al 2% di un Comune. Non sono assolutamente migliori i dati se si passa in altri settori: Mimma Gallina è l’unica donna in Italia a dirigere un teatro stabile pubblico; meno dell’11% delle donne sono presenti nei vertici dei consigli di amministrazione; dal 1963 anno in cui è stato permesso l’entrata delle donne in magistratura, la professione di giudice nel nostro “Bel Paese” è ancora un percorso a ostacoli e coinvolge meno del 40% dei magistrati; l’1,9% dei direttori dei quotidiani è donna malgrado si tratti di una professione sempre più femminile poiché il 45% dei candidati all’esame di abilitazione di giornalismo è donna; se la percentuale di ricercatrici donne è abbastanza alta il 45%, la percentuale diminuisce fra i professori di ruolo, solamente il 35% degli associati (docenti di II fascia) è donna, e addirittura la presenza femminile si ferma al 20% fra gli ordinari (docenti di I fascia); il dato più desolante è quello che riguarda la carica più alta nel mondo universitario, cioè quella di rettore, infatti, dei settantotto attuali rettori delle università italiane, solamente cinque sono donne (dunque circa il 6% del totale).
Potremmo continuare all’infinito riportando dati e percentuali scoraggianti. Ci soffermiamo invece un momento sull’indice del Social Watch che misura il divario tra donne e uomini, in materia d’istruzione, di partecipazione economica e di potere politico dando un valore di 100 su un particolare indicatore. L’Italia ha un valore generale di 70 che la pone nella classifica tra i paesi con basso GEI, al pari di Armenia, Madagascar e Vietnam. Con tre punti sotto la media europea, che è 73 (Grecia). L’unica dimensione in cui l’Italia raggiunge un valore accettabile è l’istruzione (99 punti), mentre per quanto riguarda la partecipazione economica, l’emancipazione ed l’empowerment (accesso a lavori molto qualificati, a posizioni di alto livello imprenditoriale, presenza di donne in Parlamento, reddito e occupazione) è molto al di sotto della media: rispettivamente 66 e 45.
Al di là della denominazione poco felice “quote rosa”, promuovere delle regole volte a equilibrare “le ambizioni, le istanze, le competenze, le aspettative, i desideri e i talenti delle donne in Italia” (Venerdì di Repubblica, Miti d’Oggi di Marino Niola) è un sacrosanto dovere di questo Stato e mi piacerebbe tanto che le donne, almeno stavolta, fossero unite.