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«La nostra libertà va difesa anche dalla nostra paura»  - Cultura e Spettacoli

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

BOLZANO. Di questi tempi non si augurerebbe nessuno di provare a muoversi sul filo sospeso tra diversità e identità, di camminare sopra il confine che corre tra le paure percepite e quelle reali, di cercare la bussola in mezzo a migrazioni di massa e identità nazionali sulla difensiva, valori del liberalismo occidentale e nuove culture, diritti individuali e rischi collettivi. Roberta Medda ci prova. Lavora all’ Istituto per i Diritti delle Minoranze all’ Eurac e domani, 17 luglio, nell’ ambito della “Summer school” che ha come tema “Governare le diversità”, si getterà in questi mondi paralleli con una sua relazione su “Le diversità religiose”. Terreno scosceso più che ripido. Ci prova comunque a tracciare una rotta, la ricercatrice. Che può essere questa: “La nostra libertà va difesa anche dalle nostre paure”. Lo dice intendendo questo: i diritti individuali, ottenuti e codificati in secoli di rivoluzioni e guerre europee, strappati con i denti a re e regimi autoritari, non sono “gli altri” a metterli a rischio ma molto spesso noi stessi, essendo sempre più disposti a rinunciarvi per inseguire la sicurezza. Così accade che i confini che si chiudono possano soffocarla, la nostra libertà. E con lei i diritti e i nostri valori di tolleranza e solidarietà. Per farla semplice: non è che per combattere gli integralisti finiremo per comportarci come loro, vietando e chiudendo, e così rinunciando alla più preziosa eredità che l’ Europa ha donato al mondo?

Roberta Medda, come si trova la strada?

«Innanzitutto ci sono le leggi. Io mi occupo in particolare dei diritti delle minoranze nell’ ambito delle corti internazionali. Come quella di Strasburgo. E l’ orientamento comune e prevalente è quello di porre comunque dei limiti alla libertà religiosa».

Difficili da delineare?

«Avere un credo è illimitato. Ma questo riguarda le singole persone».

Lo sancisce anche la nostra Costituzione...

«È così. Ma è il diritto a manifestarlo questo credo che può essere limitato».

Per esempio?

«Una donna di fede islamica chiede di essere visitata da un medico donna. Bene, se si può ...ma questo deve sottostare al diritto delle altre donne presenti, non è assoluto».

Non basta il buon senso?

«Beh, quello è molto relativo. Per questo l’ orientamento della Corte è quello di riconoscere margini di discrezionalità agli Stati. In Francia, per dire, il velo integrale è vietato. Anche se è una espressione religiosa. Ma che collide con altri bisogni collettivi».

È quasi naturale, quando si parla di diversità religiosa e delle sue criticità in società impaurite come le nostre, di pensare all’ Islam. Esiste dunque oggi una specificità islamica in queste paure?

«Occorre distinguere tra religione in sé e cultura. Tra fede e società. Le comunità che emigrano, storicamente, sono quasi sempre le più povere. E anche quelle islamiche appartengono a classi poco istruite, arrivano dagli strati più bassi della popolazione di quei Paesi. Spesso giungono dall’ entroterra, non dalle città. Alcuni hanno una formazione tribale, una ritualità arcaica».

Questo significa che è possibile un impatto di tipo culturale più che religioso?

«È così. Penso anche ai diritti delle donne. Certe pratiche legate a loro e ai minori creano grandi difficoltà nei rapporti di convivenza».

Quindi il “diverso” islamico è ancora più diverso?

«Attenzione. Non bisogna semplificare. Dico ad esempio che, qui in Alto Adige, la maggioranza degli stranieri e spesso anche degli immigrati recenti è di fede cristiana. Magari africani protestanti o anglicani. Oppure provenienti dalle Americhe o dalle Filippine».

Dunque?

«È indispensabili dotarsi di numeri reali. E mantenere uno spirito critico rispetto a certe semplificazioni».

E quindi, anche sul piano normativo, come si può delineare una possibile convivenza?

«La strada è la ricerca del compromesso. Che non significa rinunciare ai nostri valori, ai diritti. Anzi dobbiamo riappropriarcene in senso sostanziale. Perchè è difficile pretenderne il rispetto dagli altri, dai “diversi”, se non li applichiamo con coerenza noi stessi, le nostre società».

Vuol dire che gli italiani, gli europei rischiano di perdere la bussola?

«La nostra libertà va difesa anche dalle nostre paure. Sono queste ultime che a volte ci spingono o a privarcene o a ritenere la libertà scontata. Come accade sempre più spesso tra i giovani».

Ma è naturale porre in relazione questa “emergenza della diversità” con l'immigrazione, spesso incontrollata di questi ultimi anni?

«Certo che c’ è un legame. Ci vogliono regole. Sempre più spesso le chiedono gli stessi migranti. Ma è il Papa che ha tracciato la strada dicendo: l'immigrazione è un fenomeno che va gestito. E l’ integrazione ha dei limiti. Insomma, questo è compito della politica. Magari limiti e regole più che blocchi...».

Che ci resta da fare?

«Puntare sulle scuole. C’ è chi chiede più ore di educazione civica: bene. Va insegnata alle nostre nuove generazioni e anche a quelle immigrate. Va esteso un codice comune, fatto di diritti e doveri».

E il mito del multiculturalismo?

"Ha molte volte creato solo ghetti di comunità non comunicanti. La strada non è dare ad ognuno il suo diritto identitario o tribale o religioso ma dotare tutti del nostro patrimonio di diritti civili e pretenderne l’ applicazione. Un’ assimilazione virtuosa nella diversità delle provenienze».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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