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Christy Turlington: per me ogni madre conta - Attualità - D

Scritto da Google News. Postato in Diritti delle donne

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image Supermodel. La parola viene fuori una quarantina di minuti dopo l’inizio dell’intervista. Lei preferirebbe evitarla e parlare solo della fondazione umanitaria che ha creato. Ma come si fa a incontrare Christy Turlington - o meglio Christy Turlington-Burns, come ci tiene a essere chiamata da quando ha sposato l’attore Ed Burns - senza parlare della sua carriera da copertina? «Non è certamente l’aspetto della mia vita con cui oggi mi identifico di più, o per il quale provo più orgoglio. Ma da supermodel sono stata parte di un certo momento della cultura pop americana. E una volta che ci entri, ci sei dentro per sempre». Ci incontriamo a New York negli uffici della sua associazione no profit Every Mother Counts. È scalza, in blue jeans e felpa grigia, i capelli castani raccolti in una coda di cavallo, trucco assente o invisibile. Se il suo volto non fosse stato per anni sulle più importanti riviste di moda al mondo, e poi per anni testimonial di Calvin Klein, Maybelline e Chanel (e oggi di Imedeen), sembrerebbe semplicemente una mamma in ottima forma. «So che la gente mi conosce per quello, ma oggi c’è così tanto di più nella mia vita», dice Christy. L’incontro sarebbe dovuto durare 30 minuti, ma è più di un’ora che stiamo parlando. Soprattutto del suo lavoro a sostegno delle donne a rischio al momento del parto, promosso anche partecipando alle maratone con cui la fondazione ha ottenuto nel mondo molta visibilità. Christy parla volentieri del ruolo che ha la famiglia nella sua vita: dei due suoi figli, della madre che le ha trasmesso la passione per i viaggi, della nonna che le ha tramandato la nostalgia per il nativo Salvador.

Come è nata Every Mother Counts? «L’organizzazione è nata dopo avere girato il documentario No Woman, No Cry. Inizialmente pensavo sarebbe stata solo una campagna di sensibilizzazione. Ma dopo un po’ quello non mi è sembrato più sufficiente. Qualsiasi donna che abbia dato alla luce a un neonato sa quanto sia fondamentale al momento del parto avere le persone giuste presenti. Così la nostra attività è diventata più pratica: dare alle donne il controllo delle gravidanze. Ci focalizziamo su tre aspetti: educazione, trasporto, rifornimenti. Cerchiamo di mettere fine alla tragedia di mezzo milione di donne che ogni anno muoiono di parto».

La sua priorità, oggi, è dare visibilità questa iniziativa. Ma perché le maratone e le corse? «Da cinque anni correre è una parte notevole della nostra organizzazione. A gennaio sarò parte di un team che per la prima volta parteciperà a una mezza maratona a Haiti, un paese che stiamo aiutando con i nostri programmi. In aprile spero di partecipare alla maratona di Boston».

Lei corre per partecipare o per vincere? «Non sono un’atleta professionista. Ho cominciato con le maratone quando avevo appena passato la quarantina, quindi riuscire a migliorare per me è già un successo. Correre mi diverte e mi fa star bene. Ma mi rende anche più cosciente di quanto sia importante la salute delle altre donne, soprattutto in paesi dove mancano i servizi più basilari al momento del parto».

Come si fa ad arrivare fino in fondo alla gara? «Lo paragono un po’ alle doglie, avventura che ho vissuto due volte. Si fatica a portare un bimbo in grembo per tutto quel tempo, ma quando si arriva al momento di partorire c’è solo un modo solo per affrontare la situazione, ed è sapere che si proverà tanto dolore e ci saranno incognite e interrogativi. Per me correre è come una meditazione assai prolungata».

Da parte di madre lei è salvadoregna. Every Mother Counts opera anche in Salvador? «No, siamo nel vicino Guatemala, dove ci sono donne forti che si battono per i diritti alla riproduzione. Purtroppo in Salvador mancano i presupposti perché il nostro intervento possa avere un impatto, perché ci sono leggi restrittive sui diritti delle donne alla riproduzione. Il rapporto fra stato e chiesa rende difficile superare molti problemi».

Quel paese lei lo conosce bene. «Mia madre è nata in Salvador e venne negli Stati Uniti all’età di 8 anni. La sua fu la tipica esperienza di un emigrato di prima generazione: in questi casi i genitori puntano all’assimilazione. Io, perciò, non sono cresciuta bilingue e non sono mai stata in grado di abbracciare del tutto la cultura da cui provengo».

Quanto contano per lei queste radici? «Ho sempre saputo che mia madre veniva da un paese che stava attraversando profonde difficoltà. Il Salvador aveva un rapporto conflittuale con gli Stati Uniti e per me questo è stato elemento di perplessità. Da piccola cercavo sempre di identificarmi, ma non riuscivo a comprendere davvero il punto di vista dei miei parenti salvadoregni, che sono piuttosto conservatori».

Cosa ricorda di quegli anni? «Mia nonna parlava esclusivamente spagnolo, ma riuscivamo a intenderci benissimo. Quando andavamo in Salvador vedevamo sempre il paese da dietro i cancelli di sicurezza. Le case che frequentavamo erano superprotette, e tutti erano assistiti da personale di servizio, perché la famiglia di mia madre era piuttosto agiata. Da questi elementi deducevo che il paese aveva forti squilibri sociali. Già da bambina capivo che c’erano disuguaglianze assai profonde, in quella parte del mondo».

Il suo impegno sociale viene da lì? «Io sono un’ottimista, una persona che vede in ogni cosa quello che c’è di buono. I miei nonni incarnavano il classico modello di famiglia cattolica tradizionale, dedita a servizio alla comunità e beneficienza. Questi elementi sono alla base di chi sono io. All’università ho studiato religioni comparate, e so che tutte hanno in comune l’aiuto agli altri e la compassione».

Lei è religiosa? «Continuo a pensare che sia sempre meglio avere le “basi” di una religione: questa è l’eredità della mia famiglia. Mio marito è irlandese, quindi di estrazione cattolica, eppure ha molti più dubbi sulla chiesa di quanti non ne abbia io. Lui la ritiene direttamente responsabile di tante cose. Lo capisco, ma non è l’esperienza che ne ho avuto io. La religione per ora è importante anche per i miei figli, poi decideranno loro. Su questo tema i bambini mi fanno tante domande, e io ormai ho imparato a rispondere chiamandoli in causa: “E tu cosa ne pensi?”».Si considera una brava mamma? «Non pretendo di essere sempre perfetta. Ci provo, naturalmente, ma so di non avere tutte le risposte. Voglio dare il buon esempio mostrando di avere empatia, sia quando sono coinvolta nella vita dei miei figli, sia quando sono attiva nelle questioni del mondo. È importante che vedano la loro mamma come una persona autonoma, che prova passione per le cose in cui crede».

Come spera che diventeranno i suoi figli, quando saranno grandi? «Vorrei che fossero gentili, sia nei confronti di se stessi che degli altri. Dolci, aperti. Non è facile, soprattutto crescendo in una città come New York dove la gente tende a essere rigida e fissata con il proprio modo di fare le cose. Ci tengo che siano cittadini impegnati, con il senso della responsabilità e il desiderio di darsi da fare per gli altri».Sua madre che cosa le ha trasmesso? «La passione di viaggiare. Dopo la maturità lei si era iscritta al college, ma negli anni ’60 ha interrotto gli studi per diventare hostess, perché era una delle poche carriere che davano modo a una donna di girare il mondo. Anche mio padre adorava viaggiare. Faceva il pilota per divertimento, poi ne fece il suo mestiere per stare con lei, erano ambedue con la Pan Am. Sono cresciuta con l’idea che fuori c’è il mondo intero da esplorare. Ho viaggiato molto coi miei genitori, poi verso i 15 o 16 anni ho cominciato a farlo come modella. E da quel momento non mi sono più fermata».Certo, viaggiare da supermodel o da attivista dev’essere diverso... «Non ho mai avuto problemi di comfort, sono pronta a rinunciare anche alle comodità. Sono grata quando c’è a disposizione una doccia calda, ma sono a mio agio anche quando non c’è. Io mi adatto facilmente».

Riesce a condurre una vita normale nonostante la fama? «Sì, è uno dei vantaggi di New York. Ti permette un certo anonimato, che è una cosa splendida. Mi consente di essere me stessa. Nessuno si sente a proprio agio quando viene etichettato, e io non ho mai permesso che l’etichetta mi facesse da limite. Essere un volto famoso mi ha permesso di fare molto per gli altri, ma mi disturba che ci sia così tanta attenzione alla notorietà e ai personaggi. È un aspetto sgradevole della cultura del giorno d’oggi, perché raramente la gente usa la propria fama per fare del bene».

La via del successo1969Christy Nicole Turlington nasce il 2 gennaio1969 a WalnutCreek, California, seconda di tre sorelle. Il padre, DwainTurlington, è pilota di linea. La madre, María Elizabeth ParkerInfante, originaria del Salvador, è assistente di volo.1983-1993Inizia la carriera di modella a 14 anni. A 18 si trasferiscea New York e diventa uno dei volti e dei corpi più celebridella moda internazionale. Lei, Naomi Campbell e LindaEvangelista sono definite “La trinità” (foto sopra). Seguonocirca 500 copertine sulle riviste più importanti del mondo.1994-2010Nel 1994 riprende a studiare e si laurea in arte alla GallatinSchool of Individualized Study della New York University,dove approfondisce soprattutto la storia delle religionie della filosofia. Negli anni 2000 aggiunge alla sua formazioneun Master in Salute Pubblica alla Columbia. Nel 2000 incontral’attore e regista Edward Burns, che sposerà nel 2003e dal quale avrà due figli.2010-oggiDopo lunghi anni come attivista per CARE, organizzazioneumanitaria che combatte la povertà, e a seguito anchedi complicazioni durante il parto del primo figlio, Turlingtonsi impegna prima con No Woman, No Cry, un documentario(di cui cura la regia) sulla mortalità da parto nei paesiin via di sviluppo e poi con una propria fondazione, Every MotherCounts. Intanto continua la sua carriera di modella, restandotestimonial per grandi case della moda e della cosmeticainternazionale.

I TALENTI DI CHRISTYDa quando la sua fondazione ha scelto la corsa come mezzo di comunicazione, Turlington si allena spesso. A oggi, ha corso 4 maratone. Il suo record peronale è di 3 ore e 46 minuti per terminare quella di Londra.Il primo film che ha girato Turlington è stato un piccolo cameo in Prêt-à-porter di Robert Altman.È stata protagonista di due videoclip storici a cavallo tra gli ’80 e i ’90: Notorius dei Duran Duran e Freedom di George Michael.

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