Ora che le donne se la cavano benissimo senza un marito, amministrano i loro soldi, fanno carriera e figli solo se lo vogliono, il matrimonio potrebbe essere considerato un atto più burocratico che romantico, una di quelle trappole colorate che nascondono una terribile fregatura, quindi tendenzialmente da evitare. E invece succede che accese femministe vadano all’altare con tanto di abito bianco e bouquet avviando un infinito dibattito. La pietra dello scandalo è stata Laura Bates, ideatrice del sito everydaysexism. com che invita le donne a raccontare le discriminazioni (ha raccolto centomila storie, è considerata una delle inglesi più influenti). Dopo aver criticato a lungo il matrimonio (l’abito bianco simboleggia la verginità, il padre “consegna” la figlia al marito, e c’è anche il dettaglio non trascurabile del cognome da cambiare) si è sposata con tutti i crismi, rivedendo i dettagli della tradizione e ra- Ogionandoci sopra con il suo compagno. Apriti cielo. Julie Bindel, co-fondatrice di Justice for Women, ricorda che il matrimonio è il retaggio di una società patriarcale, fonte di parecchie nefandezze, legalizzazione della sudditanza femminile. Se volete sposarvi fatelo tranquillamente, dice Bindel, ma non fingete che possa essere una scelta sovversiva. La corrente pro-singletudine, capitanata dalle dure e pure che rivendicano lo zitellaggio come condizione esistenziale (Kate Bolick la teorizza nel saggio Spinster, Rebecca Traister nel suo All the single ladies), si augura «uno sciopero vasto, sparpagliato, con i picchetti alla porta di tutte le case e alla soglia di ogni cuore». Laurie Penny, attivista femminista, domiciliata in una comune e nobody’s wife, chiarisce la questione in maniera sbrigativa: la vita coniugale inchioda le donne a un «lavoro emozionale » (ricordarsi delle ricorrenze e festeggiarle, gestire lo stress, restare attraenti) senza compenso. Ne vale la pena? Secondo lei, no: «Sono una romantica. Credo che l’amore debba essere liberato dai confini della famiglia tradizionale e monogama, e che anche le donne debbano essere liberate. Penso che avvolgere gli aspetti più intimi e sfiancanti del lavoro umano in uno smielato involucro di cuoricini e fiori, chiamandolo amore e pretendendo che le donne lavorino senza ringraziamenti né ricompense, sia una concezione assolutamente antiromantica».
Eppure l’idea di Laura Bates continua a circolare: è possibile un matrimonio femminista? O le due parole, “matrimonio” e “femminista” sono francamente incompatibili? In sostanza: la relazione con tutti i suoi contenuti può essere negoziata, le formule di rito, vagamente maschiliste, possono essere riscritte e riadattate, sul cognome dei figli si può discutere. E allora salviamo capra e cavoli: i proclami di indipendenza e la marcia nuziale.
In Italia, dove le coppie si sposano sempre meno, il concetto di matrimonio femminista piace a Lorella Zanardo, attivista per i diritti delle donne: «Potrebbe essere di grande successo, l’inizio di una nuova fase. In fondo siamo noi a riempire le parole di significato. Il matrimonio non è stato affatto femminista, ma tutto può cambiare. Le donne si presentano sempre più spesso con il loro cognome, rivendicano autonomia anche da sposate, affrontano la vita di coppia in modo paritario. Mettere le cose in chiaro prima, dividere equamente le responsabilità, credere che un nuovo equilibrio possa esistere è sicuramente una buona cosa. Certo, niente arriva gratis. Ci vuole un’educazione al matrimonio femminista, degli uomini e delle donne. Che prima devono aver fatto un loro percorso di autostima». E lo strascico, la corsa al bouquet, le damigelle? «Tutto si può fare, anche con ironia, ridendoci sopra». Ma appunto, poi si tratta di contenuti. Volendo accelerare le pratiche bisognerebbe traslocare nell’Europa del Nord, dove il matrimonio femminista è una realtà. «Nella prossima vita», ride Lorella Zanardo, «vorrei un marito norvegese, di quelli che ti dicono: esci pure stasera, penso a tutto io».
Non c’è niente di strano nel recuperare l’idea della coppia tradizionale. Zitelle “dentro” come Cameron Diaz si sono sposate. Salma Hayeck, moglie di François-Henri Pinault, non pensava che potesse funzionare ma si è ricreduta. «Pensavo che tutte le persone sposate fossero segretamente infelici, che restassero insieme solo per i figli. Non è così. Amo avere qualcuno cui mostrare le mie debolezze. Se mi sento insicura o preoccupata posso parlarne con mio marito: lui mi dà forza e coraggio». Certo, nel caso specifico abbiamo un’attrice bella e intelligente e uno degli uomini più ricchi di Francia (forse per loro è più facile), ma l’idea di un matrimonio su misura è trasversale. Matilde Gioli, 27 anni, appena premiata come attrice emergente dall’Oréal, non fa del matrimonio un punto d’arrivo ma nemmeno lo rifiuta. Secondo lei il nostro tempo è fatto per plasmare tradizioni e stili di vita: le mogli, che abbiano firmato o no un contratto, non sono quelle di ieri. C’è chi lo chiama “femminismo romantico” e dentro potremmo metterci ragazze come Lena Dunham, che in collaborazione con Jenni Konner pubblica la newsletter Lenny dove parla di equal pay, di uomini e di Hillary Clinton alla Casa Bianca.
La verità è che ogni gesto può essere interpretato, e non da tutti allo stesso modo. Prendiamo la marcia verso l’altare, col padre che accompagna la figlia sottolineando il passaggio da un uomo all’altro (si è sempre detto: “dare in sposa”). Supremo orrore per Julie Bindel. E invece lo psicologo Pietro Brunelli, esperto di coppie e conflitti (ha seguito Lucia Annibali, l’avvocatessa sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato), autore del saggio Se l’amore diventa un inferno. Comprendere i rapporti distruttivi per evitarli e risanarli (Bur), ne dà una lettura diversa: «Se il rito perpetua un patriarcato misogino va abolito, è chiaro. Ma io non ci vedo necessariamente un gesto feudale: il padre chiede a un altro uomo di amare la figlia come lui l’ha amata. È la continuità di un sentimento, non la consegna di un pacco. E la prima garanzia di una relazione di coppia è l’amore. Sul resto si negozia, si discute insieme». Ma decidere di sposarsi comporta anche un atto di fede. Un salto nel vuoto, per quanto ci si possa ragionare sopra. O forse è davvero meglio non ragionarci troppo? Elvira Serra (ha pubblicato da Rizzoli Il vento non lo puoi fermare, una storia piena di sentimenti, scelte, colpi di scena e bellissimi personaggi) riflette: «Il matrimonio è matrimonio e basta. Lo vedo come un gran lavoro di comprensione, amore, alleanza, lo vedo nella sua potenzialità. Non c’è bisogno di fare elenchi di diritti, che possono essere violati. Non c’è bisogno di decidere chi laverà ai piatti. Ogni donna deve essere libera di avere la cerimonia che vuole, con lo strascico e senza, con la commozione e con la trasgressione. Ogni donna deve sentirsi se stessa. Non mettiamo etichette. Piuttosto, scegliamo bene gli uomini!». E poi: «Ogni vita è diversa, ogni equilibrio è diverso», ricorda Louise Doughty (è appena uscito da Bollati Boringhieri il suo Nel nome di mia figlia): «Sposarsi», spiega, «è una scelta personale. A me va benissimo essere me stessa e non Mrs. Qualcosa, e il mio compagno è contento così. Non ho mai fantasticato su matrimonio mentre ho fantasticato molto, da giovane, sul diventare scrittrice. Mi faceva orrore che alcune mie amiche, intelligenti e indipendenti, fossero ossessionate dall’idea di trovare marito. Forse una via non convenzionale al matrimonio c’è, almeno per alcune, ma la chiave sta nelle responsabilità. Ciascuno, uomo o donna, deve assumersi le proprie: uguali diritti, uguali impegni. Non è l’altra persona a renderci felici o infelici, ma un insieme di circostanze: partner, amicizie, lavoro, soldi, casa». Raccontato così, eccolo, il perfetto matrimonio femminista.